La città di cuoio - racconto di fantascienza

LA CITTÀ DI CUOIO

di Cesare Bartoccioni


Lo straniero passò i palmi delle mani sulla superficie pietrosa e levigata dell’ennesimo massiccio roccioso che stava scalando. Aveva perso il computo del tempo trascorso ad arrampicarsi e a ridiscendere da una vetta all’altra, da un crinale all’altro, su quella ripetitiva distesa litica senza apparente soluzione di continuità che componeva l’interminabile e monotona prospettiva di Epsilon Eridani C.
Dopo le tante diatribe dei secoli andati, c’erano volute quattro spedizioni esplorative della Space Mining Initiative Ltd, sostenute dai nuovi razzi a curvatura magnetica, per confermare non solo l’esistenza di tale pianeta, ma anche la presenza di ciò che, ormai da vari decenni di analisi dei dati ritrasmessi dalle sonde extrasolari, si subodorava con bramoso trasporto: atmosfera comparabile con quella terrestre; gravità pressoché identica; e soprattutto oro. Oro a tonnellate. L’immagine inviata dalla sonda 79, la terza a penetrare nell’atmosfera di EEC, come quel nuovo mondo era stato asetticamente battezzato, non lasciava adito a dubbi. Filoni d’oro a vista vergavano con inequivocabile splendore interi costoni di roccia. Le prime analisi spettrali non avevano fatto altro che confermare la natura di quegli statici fiumi di metallo giallo: densità 19,23 g/cm3; massa atomica relativa 196,96654 uma; configurazione elettronica [Xe] 4f14 5d10 6s1 eccetera eccetera. Insomma, non ci pioveva. Era oro.
Lo straniero represse un ghigno. Già, non ci pioveva. Così come, dall’evidenza del paesaggio, non pioveva su quel pianeta. In tutti i giorni passati su quella immane pietraia, non aveva visto neanche un rivolo, un ruscello, per non dire fiumi o laghi o tantomeno mari. Niente. Niente erba, niente arbusti, nessun tipo di vita vegetale né animale. Solo roccia. Lo straniero si chiese come facesse un posto simile ad avere atmosfera contenente, tra gli altri elementi, anche vapore acqueo. Mah. Magari qualche fonte idrica sotterranea. Ad ogni modo, questo lo interessava fino a un certo punto. Sarebbe stato un lavoro per la squadra di biologi e geologi in arrivo con la sesta spedizione. La sua missione era un’altra. Trovare quei filoni fotografati dalla sonda. Ma, finora, non aveva avuto fortuna.
Lo straniero si fermò, per riprendere fiato, sedendosi su uno sperone di granito, quel granito grigio che, a quanto pareva, costituiva del territorio del pianeta l’unico elemento visibile. Sbuffò, scoraggiato. Si sistemò sul naso i pesanti occhialoni antiriverbero, che difendevano la sua vista dalla penetrante luce arancione e dalle radiazioni ultraviolette emesse dal locale sole. Faceva caldo, ma era un caldo secco e sopportabile, non torrido. Si tolse lo zaino dalle spalle e se lo posò accanto alla gamba destra. Lo aprì e ne trasse un cilindro di metallo. Fece scattare il tappo del contenitore e si fece cadere sul palmo della sinistra due piccole capsule biancastre. La razione giornaliera dei vari principi nutritivi necessari. Le ingoiò senza masticarle. Per l’acqua, assunse un altro tipo di compressa, grande quanto l’unghia del pollice e di colore azzurro, estraendola da una scatoletta di titanio rotonda col coperchio a vite. Questa pastiglia se la fece sciogliere in bocca. Ne succhiò l’effervescenza avidamente, a lungo, per i successivi cinque minuti. Il liquido formatosi via via dalla compressa all’interno della cavità orale corrispondeva esattamente a 2 litri d’acqua. Quindi si rilassò sul contrafforte pietroso. Si passò le mani robuste sulla folta chioma corvina. Si osservò gli avambracci abbronzati e muscolosi. Era stato scelto, tra tutti i cosmonauti disponibili della Gilda Mercantile, per il suo fisico atletico, per la salute di ferro, e per il suo record notevole di missioni coronate da successo su Marte, Venere, Mercurio, Plutone. Era una garanzia. Così almeno gli aveva detto il Presidente della Space Mining Initiative Ltd in persona, quando lo aveva convocato, sei mesi prima, presso la sede centrale della società, all’ultimo piano del grattacielo di acciaio e cristallo che, con i suoi millenovecentonovantasette metri di altezza, svettava sui principeschi palazzi e sulle miserabili favelas di Nuova Brasilia.
Lo straniero riandò con la mente al colloquio. Il Presidente era un tipo anonimo, sulla settantina, radi capelli bianchi, volto glabro e ben curato, sguardo appannato, con gli occhi di una tonalità indefinibile tra il grigio e l’azzurro. Né basso né alto, non magro ma neanche troppo sovrappeso. Se ne stava seduto su una poltroncina lattea, nel suo completo nero fumo, al centro di un ufficio candido e spoglio, senza alcuna suppellettile visibile intorno. Lo straniero si era arrestato in corrispondenza di una riga vermiglia tracciata a quattro metri di distanza dalla seduta presidenziale, rimanendo in piedi per tutto l’incontro.
Dopo brevi convenevoli, il Presidente era andato subito al sodo, snocciolando dati e richieste con una voce tagliente e netta.
“La quinta spedizione salperà fra tre giorni, dallo spazioporto di Kourou. Ho già predisposto il suo trasferimento. Una navetta l’attende dabbasso.”
Lo straniero si era mosso incomodo, spostando il peso da una gamba all’altra.
“Non ho ancora accettato l’incarico.” Aveva provato a ribattere.
Il Presidente aveva allungato il ghigno in una specie di sorriso.
“Ho qui pronto il contratto. Le farò le stesse condizioni garantite dai Re Cattolici a quel navigatore genovese di tremila anni fa.”
Lo straniero aveva socchiuso gli occhi. Il Presidente aveva allargato il sorriso, per poi esplicitare meglio l’offerta.
“Lei sarà Ammiraglio della nostra flotta, Viceré di Epsilon Eridani C, e avrà diritto al 10% di tutte le ricchezze da lei scoperte.”
Lo straniero aveva inspirato a fondo.
“Beh, ma… non sono già state scoperte? Dalle sonde, intendo.”
Il Presidente aveva mosso la mano destra, come a scacciarsi un’invisibile mosca da davanti.
“Certo. Ma non si è potuto definire con esattezza il luogo. Sappiamo che l’oro c’è. Ma non sappiamo precisamente dove.”
“Mmmh…,” lo straniero si era stretto nelle spalle, “esplorare senza meta un intero pianeta potrebbe andare un po’ oltre la mia rimanente aspettativa di vita…”
Il Presidente aveva stretto le palpebre, osservando il suo ospite con un certo compunto.
“Naturalmente abbiamo delineato una gamma di coordinate. Si tratta di un centinaio di acri da ispezionare, non di più.”
“Beh, in tal caso, suppongo che con una squadra di una cinquantina di uomini…”
“No. Solo lei.”
Lo straniero aveva avuto un soprassalto.
“Come?”
Il Presidente aveva lasciato passare diversi secondi, poi aveva spiegato la situazione.
“Quell’oro non fa gola solo a noi. Mentre parliamo, ci sono almeno altre tre spedizioni in preparazione. Da Baikonur, da Taiyuan, dal Kennedy. C’è il Conglomerato Metalli, la Fratellanza Mineraria, la Compagnia Ricerche Siderali, il Collettivo Esplorazioni Extrasolari, la Confraternita Aurea… Ma noi abbiamo un vantaggio.”
Lo straniero aveva atteso, in silenzio.
“Tutti i nostri concorrenti stanno facendo le cose in grande: equipaggi numerosi, strumentazione, sensori, sonde portatili. Noi andremo leggeri.”
“Leggeri?”
“Un razzo veloce. Un uomo solo. Lei.”
Lo straniero aveva scosso il capo.
“È una follia.”
Il Presidente aveva congiunto le mani in grembo.
“È l’unica possibilità. Siamo stati i primi ad organizzare le spedizioni. Nessuna delle quattro è rientrata, ma i dati trasmessici comprovano che noi, per primi, siamo stati lì. Ora i nostri rivali cavillano sul fatto che la sonda 79 era un’iniziativa internazionale, che per prendere possesso di un territorio occorre il completamento della missione esplorativa, con il ritorno dell’equipaggio vivo, in base alla convenzione sulle perlustrazioni extrasolari. Insomma, tutte balle. Noi siamo stati i primi. Quel pianeta, e tutto ciò che contiene, è nostro.” Dopo un’ennesima pausa caricata di pesante significato, il Presidente aveva concluso. “Con il razzo veloce, e col peso ridotto, lei potrà giungere su Epsilon Eridani C in soli sei mesi, con un vantaggio di almeno quattro mesi sulla concorrenza. Dovrà trovare il filone, scattare foto, prelevare campioni, quindi ritornare. A quel punto, una volta che avremo registrato la concessione, nessuno potrà più metterci i bastoni fra le ruote.”
Non c’era stato altro da dire. Il colloquio era terminato. Lo straniero si era imbarcato. E ora era lì, su un mondo di pietra, vagando tra le coordinate indicate dalla SMI Ltd, senza vedere null’altro che grigia, uniforme, roccia granitica, i cui unici punti salienti erano gli avvallamenti tra un picco e un altro, a perdita d’occhio.
Ammiraglio di una flotta costituita da un unico razzo, ormai non più visibile sull’altopiano ove era atterrato giorni prima; Viceré del nulla; possessore del 10% di tutta la pietra su cui stava posando le membra. Bell’affare, aveva fatto.
Bah. Tanto valeva terminare quell’inutile esplorazione, poi tornare al razzo, rientrare sulla Terra, e mandare al diavolo tutta la SMI insieme al suo Presidente.
Lo straniero si risollevò, si risistemò lo zaino in spalla, quindi si incamminò su per il versante del costone. Avrebbe aggirato l’ennesima vetta, avrebbe camminato per l’ennesimo avvallamento, sarebbe risalito per l’ennesima… Si bloccò, impietrito. Ciò che si trovò di fronte gli fece, per un attimo, dubitare della sanità delle sue facoltà mentali.
Oltre lo sperone di roccia che si era appena lasciato alle spalle si apriva una voragine apparentemente senza fondo, a formare un’infinita V che terminava, risalendo, su uno sperone roccioso gemello distante almeno mezzo miglio dall’altro. Ma, in mezzo, non v’era il vuoto. E fu questo a far credere allo straniero di essere impazzito.
Tra un picco e l’altro, con uno spessore di poco più di un palmo, si stendeva, per tutta la superficie del baratro, una struttura a sbalzo, di colore marrone scuro, che a vista ricordava il cordobán spagnolo, o i ricami di uno stivale da cowboy. Lo straniero si avvicinò. Il crepaccio era impossibile da varcare, ma si riusciva a giungere fino alla distanza di un braccio da quella strana formazione. Lo straniero allungò la destra, toccò la struttura. Per quanto incredibile potesse sembrare, era cuoio. Una distesa enorme di cuoio.
Cuoio.
Ma da dove veniva? Fino a quel momento aveva visto solo granito, anche dall’oblò del razzo durante l’atterraggio. Solo pietra. E ora, all’improvviso, cuoio? Forse era davvero impazzito. La propulsione a curvatura magnetica a volte faceva di tali effetti. Diversi cosmonauti, al rientro dalle missioni, erano finiti direttamente in manicomio, a vita, per via della Sindrome Cefalica Emicranica Magnetica Occipitale. Se era quella, poteva mettersi l’animo in pace. Non esisteva alcuna cura. Ad ogni modo, la follia da curvatura, in lui, si sarebbe nel caso dovuta manifestare già da tempo. Di viaggi a propulsione magnetica ne aveva fatti a centinaia. No. Non era impazzito. Quello era cuoio. Punto.
Lo straniero cercò di valutare la sua posizione. Tornare indietro sarebbe stato inutile, avrebbe solo ripercorso gli stessi passaggi fino a tornare al razzo. E poi? Giunto a quel punto, tanto valeva tentare di procedere, e magari di scoprire la natura di ciò che si trovava davanti.
Iniziò a palpare il cuoio della struttura. Liscio, levigato, scivoloso. A strapiombo verticale sul nulla. Anche se fosse riuscito ad avanzare, difficilmente avrebbe potuto mantenere la presa fino al picco di roccia opposto. Sarebbe precipitato, senza possibilità di appiglio.
Si avvicinò fin dove i piedi potevano ancora far presa sulla pietra. Si tolse gli occhialoni per vedere da vicino quell’enorme, trapuntato, cuscino perpendicolare. E fu allora che se ne accorse.
Il cuoio era poggiato, con un lavoro talmente perfetto tra una trapunta e l’altra da non far scorgere a prima vista null’altro, su una costa rocciosa. Ma stavolta la roccia non era grigia. O meglio, non era solo grigia. Accostando l’occhio alla giuntura tra il cuoio e la pietra, lo straniero vide, nitido, il brillio di decine, poi centinaia, e magari migliaia, di gialle venature metalliche. L’aveva trovato. L’oro era lì, sotto il cuoio.
Iniziò a riflettere, il cervello a mille. Chiaramente le strumentazioni della sonda 79 erano tarate per la ricerca di materiali inerti, quindi i suoi sensori avevano rilevato solo la pietra con l’oro sopra. Tra l’altro, la conformazione del baratro corrispondeva alle immagini della vena aurifera che il Presidente gli aveva mostrato. Bene. Era arrivato. La missione era compiuta a metà. Ora doveva solo scattare qualche foto, prelevare del minerale, a cui sarebbe pervenuto senza sporgersi troppo sull’abisso, e tornare al razzo. Sull’origine e natura di quel materiale marrone che ricopriva la vena aurifera ci si sarebbero lambiccati ben altri cervelli, nella sesta spedizione e in quelle successive.
Lo straniero iniziò a spingersi oltre, sul cuoio, tastando a mani nude e cercando di trovare un qualche appiglio, cercando di figurarsi ove fosse meglio iniziare a dar di scalpello, senza far precipitare il prezioso minerale aureo nel baratro.
“Serve una mano?”
Lo straniero ebbe un sussulto. Una voce?
“Ti vengo a prendere, se vuoi.”
Lo straniero abbassò lo sguardo, giù verso il precipizio, da dove la voce, sottile e gracchiante, era giunta.
Ciò che vide lo raggelò. Strabuzzò gli occhi, pensando a un colpo di sole, o a uno scoppio ritardato della Sindrome da curvatura. In base alle analisi di tutte le sonde, anche quelle con sensori biometrici, non v’era vita su Epsilon Eridani C.
“Allora? Vuoi rimanere lassù come un corvo tutto il giorno?”
La voce apparteneva a una figura vagamente umanoide, anche se la forma del corpo era praticamente sferica. La testa rotonda, con dei capelli neri stretti in una crocchia sul capo, era attaccata al busto senza apparente presenza di collo. Le braccia e le gambe parevano prive di bicipiti e cosce. Il torso era nudo, e la pelle aveva una tonalità leggermente più chiara del cuoio che lo straniero stava al momento esaminando. Dalla cintola in giù, fino alle caviglie, una specie di pantalone a righe verticali gialle e arancione avvolgeva le membra in modo aderente. I piedi erano dei perfetti ovali lisci color ocra, senza dita.
“Vengo o torno dentro? Non ci piace star fuori.”
Lo straniero non riusciva a rispondere. Stava ancora dubitando dei suoi sensi.
La figura umanoide si strinse nelle spalle, quindi si avviò, agilmente e rapidamente, su per il cuoio, verso di lui.
Una volta vicino, lo straniero si avvide che ciò che aveva fino a poco prima preso per dei piedi senza dita erano in realtà delle attillate calzature, di un materiale che evidentemente faceva buona presa sulla superficie liscia del cuoio. Il volto era tondo e senza particolare espressione, con due occhi piccoli e neri, senza iridi, un naso appena accennato, due fori al posto delle orecchie, e una leggera peluria sul labbro superiore.
“Vieni, appoggiati.”
Lo straniero restò immobile. La figura abbozzò ciò che poteva essere un sorriso, quindi, senza porre altro tempo in mezzo, si prese l’uomo sulle spalle e, discendendo agilmente così come agilmente era salito, se lo portò giù con sé, fino a una specie di davanzale, sempre di cuoio, situato a un paio di centinaia di iarde dalla sommità della struttura. Lo straniero venne posato lì, delicatamente. Era un ingresso. Aperto. E dentro c’erano decine e decine di umanoidi in tutto simili, anzi assolutamente identici, al suo anfitrione.
“Questa è la nostra città.” Gli fece il tipo che lo aveva portato giù, dandogli una specie di benvenuto allungando l’avambraccio sinistro verso l’interno del pertugio. “Vieni.”
C’era altro da fare? Mah. A quel punto tanto valeva seguire il corso degli eventi, o quello della follia. Lo straniero si pizzicò la guancia destra. Era sveglio.
Iniziarono tutti a percorrere uno stretto budello, dentro il quale lo straniero dovette procedere incurvando fortemente la schiena, per adattarsi all’altezza del passaggio evidentemente tarata sulla bassa statura dei suoi ospiti. Lungo il tragitto, gli sovvenne con un ghigno il pensiero della faccia che il Presidente della SMI avrebbe fatto, sapendo che il filone d’oro aveva già dei proprietari autoctoni. Non vedeva l’ora di tornare a dargli la notizia, rimettendo nelle sue biancastre manine curiali la nomina ad Ammiraglio e Viceré. Avrebbe anche rinunziato graziosamente al 10%.
I pensieri dello straniero furono tosto interrotti dallo spettacolo che gli si parò dinnanzi una volta uscito dal condotto.
Di fronte a sé, una vasta radura si stendeva per miglia e miglia, protetta in alto da una gigantesca cupola di roccia dalla cui sommità, chissà come, veniva riflessa luce in abbondanza. Lo spiazzo era pieno di vita. C’erano animali che non aveva mai visto prima, ma che assomigliavano ai cavalli e alle mucche terrestri; nella foresta di strani alberi dalle foglie blu che circondava la pianura si intravvedevano volatili di vario tipo, mammiferi ungulati e altri cornuti simili ai daini, insetti in abbondanza; in mezzo al piano scorreva sinuoso un fiume d’acqua verde, sulle cui rive stavano varie casupole a cupola, costruite apparentemente con dei rami intrecciati. Il tutto era rapportato alla taglia di quegli abitanti.
“Bello, no?”
L’omino che lo aveva trasportato gli batté una mano sulla coscia, in modo amichevole. Lo straniero lo guardò. Beh, tanto valeva intavolare una conversazione.
“Parli la mia lingua?”
“Certo!” L’omino saltellò, tutto contento. “Le parlo tutte. Dono degli Dei.”
“Ah.” Lo straniero avrebbe avuto mille domande da porre. L’omino parve leggergli nel pensiero.
“Tranquillo, tranquillo, ti spiegheremo tutto. Ma prima vieni. Il pranzo è pronto.”
Lo stufato, consumato in modo conviviale con decine e decine di quegli umanoidi posti in cerchio intorno a un fuoco, a parte le verdure, che non riconobbe, ma che erano abbastanza gustose, era costituito da dei pezzi di carne vagamente dolciastra e magari anche un po’ andata, ma tutto sommato commestibile. Lo straniero accettò il pasto come una interessante variazione alla dieta di insipide pillole con cui si era sostenuto nei sei mesi di navigazione e nei giorni di perlustrazione tra le coordinate affidategli dalla SMI.
“Anche questo, è dono degli Dei.” Gli strizzò l’occhio l’omino.
“Ah. Intendi… gli animali che vedo qui, nella pianura e nella foresta?”
“Oh, no, no. Quelli sono sacri. Intoccabili. Sono pochi, si estinguerebbero.”
Lo straniero guardò la ciotola di terracotta, dove nel sugo di verdure guazzavano ancora due bocconi di fibra muscolosa.
“Su, finisci, che poi c’è la cerimonia.”
“Cerimonia?”
“Certo,” fece cenno affermativo col capo l’omino, “per ringraziare gli Dei!”
“Ah, già…” Lo straniero finse di comprendere, ma non ci stava capendo niente.
Terminato il pranzo, si alzò e venne guidato dentro l’intrico di capanne, fino a un piccolo spazio circolare al cui centro si ergeva un palo alto quasi il doppio di lui. Lo straniero socchiuse gli occhi, osservando quel manufatto. Strano. Gli ricordava qualcosa.
Il pilone era formato da diversi cippi cilindrici posti uno sopra l’altro. Ogni cippo aveva una sagoma intagliata, a tutto tondo. Ognuno era di un colore diverso, dal giallo all’arancione all’ocra al rosso. Riproduzioni di animali, musi, artigli, ali, fino alla sommità, su cui svettava la raffigurazione di un arcigno volatile. Lo straniero spalancò la bocca. Gli ricordò l’uccello tuono dei pellerossa americani dei tempi antichi. Ebbe una rivelazione. Era il palo della tortura! Ma la realizzazione, ormai, era giunta troppo tardi.
In men che non si dica, rapide mani e veloci gesti lo spogliarono, e si ritrovò legato al palo.
L’umanoide che lo aveva trasportato in quella strana città gli si parò davanti.
“Spero che tu abbia apprezzato il pasto. Se ne vuoi ancora, come ultimo desiderio, ci è rimasto qualche pezzo dei tuoi compagni venuti prima di te, nelle nostre celle refrigerate sotterranee. E anche di qualcuno di specie diversa dalla tua, se vuoi provare. La loro pelle, invece, l’hai già vista e toccata prima. Quello è il nostro monumento agli Dei.”
Lo straniero ebbe un moto di disgusto che gli salì dal fondo dello stomaco. Sentì che stava per vomitare.
L’omino allargò le sottili labbra in un ghigno maligno.
“Gli Dei ce l’avevano detto, che la cupidigia per il nostro oro avrebbe attratto qui cibo e risorse. Che avremmo avuto sempre da mangiare, fino al loro ritorno.”
L’omino spostò lo sguardo intorno a sé, osservando alcuni suoi simili che stavano affilando dei lunghi coltelli scintillanti.
“E ora, anche il tuo cuoio sarà aggiunto al tempio degli Dei.”
Lo straniero pensò alla sesta spedizione che sarebbe presto giunta. Alle spedizioni delle compagnie concorrenti. A quelle di altre specie extraterrestri. Mossi dalla stessa brama, facendo tutti la stessa fine. 
Gli Dei avevano ragione. La cupidigia avrebbe portato risorse e cibo, per sempre, su Epsilon Eridani C.



FINE

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