Il bicchiere - racconto giallo

IL BICCHIERE

 

racconto

 

di Cesare Bartoccioni

 

 

 

Forte del diploma magistrale a pieni voti e del baccellierato in pedagogia conseguito cum laude a La Sorbonne, non mi fu troppo difficile ottenere l’impiego come cameriera a ore presso l’avita magione dei duca-conti Pfeiffer-Qvist.

Il vialetto d’ingresso al giardino all’inglese, nella sua miscela di pietrisco di granito grigio e rosa, giungeva in linea retta direttamente al portale della grande villa settecentesca con visibili riporti e restauri in stile liberty di recente fattura. Il torpedone che avevo preso alla stazione ferroviaria mi aveva portato fino all’ultima fermata utile, e le ultime cinque miglia me le ero dovute sorbire a piedi, ora doloranti nelle strette scarpe di vernice nuove di zecca acquistate per l’occasione e da me imprudentemente indossate per tutto il viaggio di andata. Il sudore che mi correva sotto l’abito di ispido panno grigio fumo, nuovo anch’esso, non aiutava la mia condizione generale, e di certo non avrebbe aiutato la mia presentazione, prevista di lì a mezz’ora, al cospetto della padrona di casa.

Oltrepassate le due colonne di pietre squadrate di granito rosso sormontate da statue di ghisa rappresentanti un leone rampante a sinistra e un’aquila bicefala a destra, simbolo della sempiterna equidistanza dei duca-conti Pfeiffer-Qvist nelle tormentate relazioni russo-svedesi, equidistanza che secondo le malelingue delle malfamate bettole della vicina cittadina di Värtsilä era poggiata su un ben oculato commercio di armi a favore di entrambi i contendenti, m’incamminai per il sentiero, sperando di riuscire a coprire quell’ultimo mezzo miglio in tempo per l’appuntamento.

Vagamente rinfrescata dal refrigerio che saliva dai ruscelletti incuneati ad arte tra alberi esotici impiantati la cui ombra offriva un intermittente sollievo alla calura lugliatica nel cammino fino alla dimora, potei recuperare una parte del mio aspetto professionale in tempo prima che il battente del portale si aprisse e un valletto uscisse venendomi incontro.

“Ha preso il giornale?” Il valletto, nella sua livrea verde smeraldo bordata a filo d’oro, un segaligno signore il cui volto rugoso e la cui bianca chioma stabilivano un’età che, a occhio, era quattro volte la mia, aveva parlato con una fredda voce baritonale, accompagnata da uno sguardo altrettanto freddo e cupo.

“Il giornale?” La mia voce invece uscì vagamente strozzata.

“Sì, il giornale.”

“Che giornale?”

“Quello che il servizio postale consegna ogni mattina, nella cassetta posta prima dell’ingresso al vialetto.”

“Ma... sono le cinque del pomeriggio.”

“Irrilevante. Tra i suoi doveri v’è appunto quello di andare a prendere il giornale prima di colazione, e dato che inizia il suo lavoro oggi... da oggi tocca a lei.”

Restai ammutolita. Ad ogni modo, il cipiglio del valletto non ammetteva repliche. Obbediente, tornai sui miei passi fino alle colonne di granito, oltre le quali, accanto a quella del leone, v’era in effetti una vetusta cassetta postale, in ghisa anch’essa come le statue sormontate sulle colonne, anch’essa sfoggiante lo stemma svedese, completo delle tre corone e dei leoni rampanti, quello russo dell’aquila bicefala completo di San Giorgio e drago e, al di sotto, evidentemente per ogni evenienza, un bel bassorilievo di falce e martello, lucido di recente riporto. La famigerata equidistanza dei duca-conti Pfeiffer-Qvist. D’altra parte, la cortina di ferro era a due passi da lì...

Aperta la cassetta sollevandone il coperchio superiore, mi avvidi del quotidiano effettivamente presente al suo interno. Lo presi e mi rincamminai verso la villa.

Il valletto, un puntino verde sui gradini d’ingresso alla casa, era rimasto in attesa. Procedetti lentamente, non tanto per protesta quanto per mancanza di forze, usando il giornale a mo’ di ventaglio per mitigare il calore extra e la vaga irritazione che mi era presa al dover ripercorrere il mezzo miglio, diventato ora un miglio e mezzo.

Una notizia di spigolatura sotto il titolo Cose di Carelia attrasse la mia attenzione:

 

Incidente di caccia nella zona di Joensuu. Pekka Mytylä, di 30 anni, spara alla suocera scambiandola per un orso. L’uomo è stato denunciato dall’Associazione per la Tutela dell’Ursus Arctos per atto intenzionale ostile contro specie in via di estinzione. La polizia di Heinävaara ha notificato al Sig. Mytylä una multa di 2.000 marchi per esercizio di attività venatoria fuori stagione.

La suocera del Sig. Mytylä sta bene, ha solo riportato una ferita di striscio alla coscia destra, giudicata guaribile in 10 giorni.

 

Giunta dal valletto, consegnai l’edizione del Gazzettino di Värtsilä e lo seguii all’interno. Venni fatta entrare in un salotto in penombra, tappezzato di pesanti tessuti verdi e marroni, che si apriva sulla destra alla fine di un lungo corridoio dal piancito di marmo nero e bianco disposto diagonalmente a scacchiera con le pareti ornate di quadri raffiguranti antiche battaglie ed altrimenti spoglio. Il valletto accennò un inchino verso il centro della stanza e avanzò fino a poggiare il quotidiano su un tavolinetto da caffè posto accanto a una grande poltrona rococò in velluto giallo ocra.

“Glielo metto qui accanto alla posta del mattino che le ho portato poco fa, duchessa.” Quindi si ritirò, camminando all’indietro fino a riguadagnare la porta, richiudendosela di fronte una volta uscito.

Mi chiesi se il mio dovere mattutino, quindi, insieme al giornale includesse anche il ritiro della posta, o se quest’ultima fosse demandata al prelievo esclusivo da parte del valletto.

“È in ritardo.”

La voce, da contralto rovinato e altrettanto fredda di quella del valletto, era uscita da una informe sagoma scura sprofondata nel giallo velluto della seduta, sagoma che indovinai appartenere alle duchessa Pfeiffer-Qvist.

“Mi scusi, duchessa, ma son dovuta tornare a riprendere il gior...”

“Non esistono scuse, qui.”

La sagoma si sollevò dalla poltrona e con un movimento lento e unito, quasi che, invece di camminare, scivolasse sul tappeto persiano che ricopriva il pavimento della sala per tutta la sua superficie, mi si avvicinò.

La figura che mi si parò dinnanzi mi fece tornare alla mente l’olio su pannello di George Gower con l’immagine della regina Elisabetta I.

I capelli, non rossi come nel dipinto, ma bianchi, raccolti in due ampie ciocche ai lati del capo, la gorgiera candida su un mantua di velluto blu ad ampie maniche puntellato di gemme. Le mani guantate in seta nera, sulle cui dita risaltava il luccichio di grossi diamanti inanellati in oro.

In effetti, come mi era già stato anticipato nella taverna di Värtsilä dove mi ero fermata a consumare un frugale pasto in attesa del torpedone, la duchessa Pfeiffer-Qvist era una donna d’altri tempi. Sì, tempi passati da oltre tre secoli.

Gli occhi grigi e inespressivi della duchessa, risaltanti nell’assenza di sopracciglia, si fissarono con una luce di rimprovero sulle mie scarpe impolverate, salendo poi su per il mio semplice abito chiazzato di sudore, fino al mio volto certamente paonazzo data la sfacchinata finale su e giù per il vialetto, terminando infine sui miei capelli neri e certamente scompigliati raccolti a cipolla sulla nuca.

“Ambrose le mostrerà i suoi alloggi. Può iniziare subito riassettando la stanza del duca, attualmente assente per impegni di lavoro a Leningrado. Il suo ritorno è previsto tra una settimana. Successivamente, Ambrose le indicherà in dettaglio i suoi compiti. Può andare.”

La duchessa volse le spalle e, con la stessa andatura lenta e unita di poc’anzi, tornò a sprofondare sulla poltrona.

Feci un inchino nella sua direzione e guadagnai l’uscita.

‘I miei alloggi’ risultarono formati da una stanza quadrata e senza finestre ricavata in un angolo delle cucine nel sotterraneo della villa. La larghezza laterale era sufficiente a contenere un pagliericcio che si estendeva da parete a parete e dove la mia statura riusciva a stare quasi interamente distesa. Il resto del mobilio e delle suppellettili era costituito da un tavolo traballante e da uno sgabello, entrambi di abete grezzo, e da una campanella di bronzo che pendeva lungo il muro, sopra il tavolo, assicurata a una cordicella. L’altro capo dello spago, mi aveva edotto Ambrose, era collegato al salotto della poltrona gialla, dove la signora duchessa pareva passare la gran parte delle sue giornate. Al minimo tintinnio, era mio dovere presentarmi a rapporto, a qualsiasi ora. Alla mia richiesta di chiarimenti sul fatto che l’annuncio sul quotidiano Il foglio di Joensuu a cui avevo risposto richiedeva una prestazione a ore, Ambrose, senza scomporsi, aveva risposto “esatto, 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana. 300 marchi al mese, vitto e alloggio inclusi. E a proposito del vitto”, aveva continuato Ambrose, “chiaramente a noi della servitù sono preclusi i pasti che prepariamo per i signori duca-conti”.

In un primo momento avevo pensato che, beh, dato che la servitù era composta solo da me e Ambrose, e che alla cucina avrei dovuto badare io, nessuno si sarebbe accorto di qualche taglio di carne in meno o di qualche verdura mancante, ma col tempo avrei capito che il compito precipuo di Ambrose era giustamente quello di controllare la servitù sottoposta, cioè me, e che oltre a non perdermi mai d’occhio durante la mia attività culinaria, Ambrose era, del cibo, anche assaggiatore ufficiale. Insomma, niente da fare. Il mio vitto era già stato stabilito in modo ferreo e immutabile: fetta di pane di segale imburrato e bicchiere di latte a colazione; pasticcio di maccheroni e mousse di patate a cena. Niente pranzo, perché il pranzo, per i duca-conti Pfeiffer-Qvist, mi aveva spiegato Ambrose, era roba da plebei. Di acqua comunque ne potevo bere a volontà, d’altra parte uno dei miei doveri era proprio quello di issarla dal pozzo situato al centro del cortile ottagonale interno della villa, ogni giorno, e con essa riempire le varie cisterne e i tanti contenitori sparsi per la magione, per poi svuotarli la sera. Un lavoretto di appena tre ore, avrei poi potuto appurare.

Rinfrescatami alla bell’e meglio, quindi, mi misi all’opera nel riassetto della stanza del duca. Pareva un campo di battaglia, che si estendeva per i sette ambienti che formavano ‘la stanza del duca’: una camera da letto; un vasto salotto; un tinello; due bagni; una sala da biliardo; e uno studio con telefono, telex, ticker... insomma, tutto l’apparato dell’uomo d’affari di successo, posizionato a intervalli regolari sul ripiano della scrivania di scuro rovere intagliata con inserti d’oro. Lenzuola, cuscini, vestiti, palle da biliardo spuntavano qua e là per tutti i sette vani, sul marmo dei pavimenti, sulla lacca del mobilio impero, sui tessuti bicolori delle sedute Luigi XVI. Alle pareti non v’erano quadri, ma teche contenenti tante tipologie di armi quante ne potrebbe esibire un museo dedicato. Quale figlia di un capitano dell’esercito finlandese durante la Guerra d’inverno, potei riconoscerne diverse. Evidentemente, costituivano il catalogo storico della florida attività dei duca-conti Pfeiffer-Qvist, generazione dopo generazione, dai primi conflitti tra regno di Svezia e impero russo fino alla guerra appena conclusa. La libreria, anch’essa in rovere, che ricopriva un’intera parete del salotto, conteneva libri e manuali in tema. Insomma, un uomo tutto casa e commercio.

Sistemati e riordinati i vestiti, le lenzuola, i cuscini e le palle da biliardo, mi presentai quindi a rapporto da Ambrose, per ricevere le istruzioni della casa. Per stare sul sicuro, portai con me un foglio di carta e una matita:

 

1.  Preparazione della colazione per le ore sei. Da tenere in caldo fino alle ore 11 e portarla nel salotto della signora duchessa. Nel frattempo: ritiro del quotidiano dalla cassetta postale; captazione dell’acqua dal pozzo e riempimento contenitori e cisterne; riassetto della cucina.

2.  Pulizia e messa in ordine di tutte le 150 stanze della villa, tranne il salotto della signora se non dietro precisa istruzione da parte della eccellentissima duchessa.

3.  Ritiro stoviglie dal salotto alle ore 13 e loro lavaggio e asciugatura prima di riporle nell’apposita credenza in cucina. Eseguire eventuali ordini da parte della duchessa normalmente comunicati dopo colazione.

4.  Cambio d’abito della signora duchessa alle ore 17. Provvedere alla lavanderia del caso.

5.  Preparazione della cena per le ore 19. Da tenere in caldo e servire nel salotto di cui sopra alle ore 21.

6.  Ore 23. Ritiro di tutte le stoviglie della cena e procedere come al punto 3. Ripassare per tutte le 150 stanze della villa e mettere in ordine eventuali elementi fuori posto. Svuotare tutti i contenitori e le cisterne dell’acqua del giorno. Avere particolare cura della camera da letto della signora duchessa, quantunque l’eccellentissima dama non la utilizzi praticamente mai senza ospiti, preferendo soggiornare nel salotto anche durante le ore notturne.

7.  Ore 24. Scatta il silenzio. Ritirarsi nella propria camera e lasciarla solo in caso di suono di campanella.

 

Beh, pensai subito, nella mia semplicità, che in fondo erano solo 7 punti. Avrei presto appreso, tuttavia, che gli ordini della duchessa avrebbero reso quasi impossibile passare dal punto 3 al punto 4 senza essere dotati del potere di fermare il tempo. Né mi sarei mai capacitata del disordine imperante nelle 150 stanze della villa praticamente fin da subito dopo il mio primo passaggio di pulizia. Come se un fantasma mi seguisse e si divertisse a disfare ciò che io mettevo a posto.

Ma la parte più grama del mio lavoro sarebbe stata la notte, come capii subito fin dal primo giorno.

La campanella suonò, la prima notte, quattro volte, a intervalli di 2 ore. La duchessa voleva il cuscino un po’ più sollevato sulla poltrona. Poi un po’ meno. La terza volta occorreva tirare meglio la tenda affinché la luce non disturbasse il sonno di prima mattina della duchessa. La quarta, ripensandoci, era meglio ritirarla un po’ indietro, perché poi alla fine la luce di mattina mette allegria.

“E... Sanna,” terminò la prima notte, cioè ormai la prima mattina, la duchessa, pronunciando il mio nome a denti stretti, con la ‘S’ quasi a diventare ‘Z’, “il bicchiere.”

Restai di stucco e mi volsi verso la signora.

“Il bicchiere, signora?”

La duchessa, per tutta risposta, indicò con la guantata mano stanca il ripiano di lucido ebano del trumeau veneziano addossato alla parete a sinistra della poltrona, dove un calice di cristallo riluceva nella fioca luce mattutina di un’opaca brillantezza che giocava strani bagliori sulla poca acqua rimasta nel fondo.

“Il bicchiere, Sanna.”

“Non capisco, signora. Desidera più acqua?”

La duchessa inspirò a fondo, e lentamente espirò in un moto di stizza sopita.

“Desidero, Sanna, che la sera tutte le faccende siano portate a termine, e tutte le stoviglie riposte in cucina, come da istruzioni.”

Non mi ricordavo che vi fosse stato un bicchiere sul trumeau, la sera prima. Anzi, ricordavo benissimo di aver riposto ogni singola stoviglia portata su per cena, e quella coppa non l’avevo mai vista prima. Comunque, feci buon viso a cattivo gioco. Magari il bicchiere era lì in quella sala da chissà quanto tempo.

“Certo, duchessa, provvedo subito, non succederà più.”

I giorni così passarono, scanditi dai 7 punti della lista, dagli ordini della duchessa e dalle scampanellate notturne, a volte 2, a volte 4, mai più di 6.

“Sanna, sei attesa in salotto”. Ambrose era entrato in cucina durante il riassetto della colazione. Anzi, aveva fatto un breve capolino per comunicare la richiesta della duchessa, per poi disparire.

Insomma, ero appena stata dalla duchessa, mi aveva detto che per oggi non v’erano ordini particolari, e subito appena tornata giù mi manda a chiamare? Ma insomma! Ad ogni modo, andai.

“Eccomi, duchessa, in cosa posso servirla?” Pronunciai le parole accompagnandole col solito inchino verso la poltrona con la sagoma.

“Il bicchiere, Sanna.”

Guardai d’istinto verso il trumeau. Ed eccolo lì. Di nuovo. Nella sua cristallina alterigia. Il quarto d’acqua rimasto dentro pareva quasi sussultare, come in una risata.

“Ma... non capisco, duchessa. Io...”

“Lascia perdere, Sanna, fa’ solo il tuo dovere e occupatene.”

Chinai il capo in un accenno di sottomissione. Recuperai il bicchiere, feci per andarmene.

“Un’altra cosa, Sanna.”

“Mi dica, signora duchessa.”

“Pare che mio marito, il duca-conte, sarà trattenuto a Leningrado ancora per qualche tempo. Forse sarebbe comunque il caso di arieggiare un po’ la sua stanza e controllare che tutto sia a posto, in modo che quando tornerà non avrà di che lamentarsi.”

“Certo, duchessa, provvedo subito.”

Beh, una corvée tutto sommato semplice. Avevo sistemato la stanza del duca-conte il primo giorno, si sarebbe trattato solo di far correre un po’ d’aria dalle finestre.

Trovai la stanza del duca-conte tutta sottosopra, come se vi fosse passato un esercito. La cosa buffa, è che tutti gli oggetti erano sparsi per i sette ambienti esattamente come il primo giorno. Mi parve evidente che qualcuno si stava divertendo a spese mie. Ambrose? Forse. In combutta con la duchessa, annoiata dal tanto far niente e perciò prona a divertirsi a spese della prima servetta tanto affamata da accettare una siffatta occupazione? Certamente. A meno che nella villa non circolassero fantasmi. Quelli che mi mettevano in disordine le stanze subito dopo il mio passaggio. Quelli che mettevano il calice di cristallo sul trumeau veneziano della signora duchessa.

Certo. Ma non credevo ai fantasmi, io.

Nei giorni successivi mi feci un punto di controllare a mia volta, in ogni momento libero, le mosse di Ambrose, ma mi resi tosto conto che si trattava di un’impresa alquanto velleitaria, data la scarsità di tale tempo libero a mia disposizione.

Quindi, nelle giornate successive, i 7 punti della lista delle cose da fare si arricchivano di stanze mai usate eppure da riassettare (tra cui quelle del duca-conte, un giorno sì e uno no), commissioni al limite dell’arco temporale ad esse allocato, scampanellate notturne e sonno interrotto, di continuo.

E il bicchiere.

Il bicchiere.

Il bicchiere di cristallo.

Il bicchiere di cristallo era sempre sul trumeau. E, cosa più strana, una volta riportato in cucina, lavato e asciugato e riposto nella credenza, se ne riperdevano subito le tracce, come se sparisse.

Una mattina la duchessa avvisò che si sarebbe dovuta recare in città (non disse quale) per certe sue commissioni personali (non disse quali), e pertanto io avrei dovuto approfittarne per riassettare, finalmente, il salotto.

Trovai la stanza praticamente in ordine, aprii le due grandi finestre ai lati del trumeau per arieggiarla per benino e, con l’occasione, procedetti a un’attenta... perquisizione degli ambienti. Casomai spuntasse un bicchiere...

Niente.

La signora duchessa tornò la sera stessa, e subito si ricollocò nella poltrona gialla. Di lì a poco venni convocata in salotto.

“Il duca-conte torna domani.” Mi informò la duchessa, con la solita immutabile aria di gelida sufficienza. “Assicurati che la stanza del duca sia in ordine, Sanna. Il duca-conte ha concluso un molto proficuo affare con le autorità sovietiche, e non voglio in modo assoluto che sia contrariato da qualche quisquilia una volta giunto alla villa.”

“Certamente, duchessa.” Feci un inchino e accennai ad andarmene.

“Sanna?” Mi fermò l’algida voce.

“Sì, signora duchessa?”

L’indice guantato della mano sinistra della duchessa puntò verso il trumeau.

“Il bicchiere.”

Mi volsi. Era lì. Con lo stesso quarto d’acqua sussultante, con lo stesso luccichio opaco e sornione. Lo presi, mi inchinai di nuovo, tornai alle cucine.

La mattina del giorno del ritorno del duca-conte un’altra spigolatura delle Cose di Carelia mi colse lo sguardo durante la mia ginnastica mattutina di camminata veloce di mezzo miglio in andata e mezzo miglio di ritorno nella mia incombenza quotidiana di recupero e riporto, appunto, del quotidiano locale, il Gazzettino di Värtsilä. Il cronista dava il resoconto del seguito dell’incidente di caccia fuori stagione di cui avevo letto a suo tempo, riportando l’arringa dell’avvocato difensore di Pekka Mytylä e comunicando l’esito del processo intentato a suo carico a seguito della denuncia dell’Associazione per la Tutela dell’Ursus Arctos:

 

L’avvocato Jyrki Viitakaugas, difensore del Sig. Mytylä, ha sottoposto ai tre giudici della corte criminale la seguente riflessione: “Osserviamo la questione da un altro punto di vista: immaginiamo che il mio cliente avesse effettivamente sparato a un orso, scambiandolo per la suocera. Beh, in tal caso, sarei io il primo a costituirmi parte civile per conto della benemerita Associazione per la Tutela dell’Ursus Arctos.”

Riuniti a consiglio per trenta minuti, i giudici della corte criminale di Heinävaara hanno quindi dichiarato Pekka Mytylä non colpevole, disponendone il rilascio immediato.

 

Consegnato il giornale ad Ambrose, il quale aveva già ritirato la posta del giorno ed era in attesa del quotidiano per portare il tutto alla signora duchessa, mi appropinquai alle faccende mattutine, dopo le quali, per buona misura, passai a rassettare la stanza del duca, che ritrovai, senza sorprendermene, nel disordine preciso a cui ormai mi ero abituata.

Al cambio d’abito della duchessa, questa volta effettuato con un capo d’eccezione, completo di corpino steccato decorato con nastri di velluto, manica lunga e svasata e gonna con strascico doppiata da due sottogonne di taffettà, ricamato in paillettes su tulle di cotone, il tutto in nero-viola, in vista della cena con il marito appena rientrato in villa, la duchessa, una volta terminata la vestizione, mi si volse a mezzo con uno sguardo tra l’ironico e il sarcastico.

“Sanna, il signore ha trovato la stanza in disordine.”

“Ma...” iniziai a balbettare, “... non è possibile, l’ho riassettata poco fa.”

“Eppure... Ad ogni modo,” continuò la duchessa, “mio marito è un uomo comprensivo e, se ora ti recherai nelle sue stanze, rimettendole a posto e mostrandoti carina con lui, sono certa che rinuncerà al proposito di decurtarti lo stipendio del 50%, idea certamente maturata in lui a causa della stanchezza del viaggio.”

“Ma... duchessa... io...”

“Fossi in te, Sanna,” di nuovo la ‘S’ pronunciata come ‘Z’, “non perderei tempo. Tra un’ora dovrai servirci la cena. Desiniamo prima, stasera.”

Rimasi interdetta un lungo istante. Quindi feci un inchino e mossi per uscire.

“Sanna,” mi fermò l’algida voce.

“Sì, duchessa?”

“Il bicchiere.”

 

Tre giorni dopo, sul diretto Joensuu-Kajaani, da dove avrei poi preso un torpedone per la mia città natale di Kuhmo, sorseggiando un caldo caffè, lessi la notizia sul Gazzettino di Värtsilä acquistato la mattina stessa, sorridendo tra me e me e ripensando a mio padre, capitano dell’esercito finlandese, eroe della Guerra d’inverno:

 

Atroce delitto alla villa dei duca-conti Pfeiffer-Qvist. Ieri mattina, allertata da un partner industriale del duca-conte, che non riusciva a ottenere risposta ai ripetuti tentativi di chiamata telefonica per un urgente contratto commerciale, la polizia di Heinävaara si è recata all’antica magione. Trovando il portone d’ingresso spalancato, gli agenti sono penetrati all’interno chiamando a gran voce i residenti, ma senza riscontro. Durante la perquisizione delle tante stanze, trovate tutte bene in ordine, come riportato dal sergente Pitkänen, gli ufficiali di pubblica sicurezza si sono trovati di fronte tre scene raccapriccianti:

Il corpo senza vita del valletto Ambrose è stato rinvenuto nella zona delle cucine, con la testa immersa nel tegame dello stufato ancora bollente sul fuoco acceso. Il duca-conte, nel suo studio, giaceva supino seminudo e già in rigor mortis, il petto trafitto da una baionetta proveniente probabilmente dal suo fucile da collezione AVS-36, la cui teca alla parete risultava aperta. La duchessa, riversa sulla poltrona del suo salotto, con lo stelo spezzato di un calice nella mano guantata, presentava diverse ferite fatali al capo, provocate da un qualche oggetto contundente che, dal rinvenimento di alcuni frammenti fra i capelli, si presume di cristallo.

La polizia, tra i tanti quesiti sollevati dalla triplice tragedia, dovrà anche stabilire chi e perché ha tratteggiato, con gesso bianco, sulla cassetta postale all’esterno della villa, lo stemma del leone coronato della Finlandia.

 

 

FINE

 


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