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X 1881
racconto
di
Cesare Bartoccioni
Il colpo di
tosse mi venne secco e aspro, ma ormai mi ci ero abituato.
Mi passai il
dorso della sinistra sulle labbra. Scostandomelo dalla bocca, fissai la macchia
densa e scura rimasta sulla fossa radiale. Ma non era tabacco. Anche a quello,
ad ogni modo, mi ero abituato.
Ripulii la
mano strofinandomela sulla giacca. Non era importante. Non sarebbe durata
molto, probabilmente. Importante, invece, era non perdere la presa dell’arnese
che tenevo, con la destra, sotto il lembo del soprabito.
“Dovresti
farti vedere.”
Sollevai lo
sguardo verso il mio amico. Gli occhi erano invisibili, nell’ombra della tesa,
ma sentivo le sue pupille puntate dritte sulle mie.
Ricambiai il
suo tono preoccupato con un sorriso.
“Mi vedo da
me.”
Non c’era
tempo di discutere oltre. Ci aspettavano. Erano già in fila, di fronte a noi.
Camminammo a
lenti passi lungo la polverosa Fremont Street. Ci fermammo, tutti insieme, a
poca distanza dallo studio fotografico di Fly. L’aria era tersa e immobile. Era
come se Eolo fosse in attesa di una tempesta. Sarebbe stato un uragano, invece.
E non l’avrebbe portato il vento, stavolta.
Erano armati.
Bastardo d’uno sceriffo. Ci aveva mentito.
C’è chi dice
che qualcuno gridò un ordine. C’è chi dice che qualcuno si mise a strillare.
Sinceramente,
non lo so. E francamente, me ne infischio.
Non so chi fu
a cominciare. Due furono i primi colpi, esplosi praticamente all’unisono. Uno verso
il mio amico, che venne mancato. Uno tirato dal mio amico, che non ne mancava mai
uno. Lo stomaco del suo bersaglio si mise a sanguinare. Il fumo delle polveri offuscò
subito le poche iarde che ci separavano. A quel punto, iniziarono tutti a far
fuoco.
Io vidi il
cavallo impennarsi. Vidi quel pezzo di sterco cercare di aggrapparvisi. Non lo
avrei mai permesso. Feci un giro oltre la sua cavalcatura. Liberai il ferrovecchio
della diligenza dalla falda del cappotto e gli sparai a bruciapelo, in petto,
tirando entrambi i grilletti. Lo vidi cadere ai piedi del palo del telegrafo. Bravo
figlio d’un cane. Forza. Manda un messaggio a Belzebù, avvisalo del tuo arrivo.
Gettai la
doppietta, ormai scarica, misi mano alla mia .38 e mi diedi anch’io alle danze.
Quello che
aveva giurato di ammazzarci tutti se ne scappò via come un coniglio. Insieme a
un suo degno compare.
Un altro
riuscì ad afferrare le redini del suo ronzino, e fuggendo mandò un po’ di
piombo dalle mie parti, colpendomi alla fondina. Mi guardai in basso. Solo un
graffio. Gli ricambiai la cortesia, e feci in tempo a vederlo cadere e mordere
la polvere.
Uno dei
nostri venne bucato alla schiena, e ci mise un minuto buono per rialzarsi. Un altro
al polpaccio. Ma non sembrava nulla di grave, nessuno dei due, tanto che li
vidi risollevarsi, armi in pugno, e riprendere il concerto.
Il mio
amico, in piedi in mezzo a quel caos, con le pallottole che gli fischiavano
intorno senza nemmeno sfiorarlo, pareva un angelo vendicatore disceso in terra
nel giorno del giudizio universale, circondato da demoni che nulla potevano
contro di lui. Ruotava il busto poggiando il peso ora sulla gamba destra, ora
sulla sinistra. Il fumo che usciva dalla canna della sua .44 era come un sacro
incenso che allontanasse il maligno.
Uno spettacolo.
Io sparavo e
tossivo, vomitando sangue e piombo. Se proprio dovevo sputare l’anima, quello sarebbe
stato un bel giorno.
Il mio amico
aveva intanto finito le pallottole, e io pure.
Ebbi il
tempo di vedere l’ultimo rimasto di quei sacchi di escrementi, sanguinante dal
polso, dall’addome e dal petto, accasciarsi e seguitare a sparare poggiandosi
la pistola sulla gamba. Era già morto, ma continuava a combattere. Notevole. Lo
ammirai. Niente a che vedere con quei codardi che se l’erano data
a gambe al primo botto. Un’altra pasta. Il fotografo, con una carabina Henry in
mano, uscì dal suo studio e lo disarmò. Ma disarmò un cadavere.
Tossii ancora,
e ancora sputai sangue, macchiando la polvere di fronte a me.
Gli spari
erano terminati. L’acre odore pirico pungeva le nari e arrochiva la gola.
Non riuscivo
a fermare i miei spasmi polmonari.
Il mio amico
tornò a guardarmi. L’ombra della tesa gli celava ancora gli occhi, ma le sue
pupille, lo sentivo, erano fisse nelle mie. Gli sorrisi.
“Sei ferito?”
la voce era bassa e rassicurante.
“No.” Mi
lisciai il soprabito, continuando a tossire. “Tutto a posto.”
“Dovresti farti vedere, Doc.”
“Mi vedo da
me, Wyatt.”
Accennò anch’egli
un lieve sorriso, rassegnato ma gentile.
Ci guardammo
intorno. Il fumo si stava posando sui corpi, sulla terra, sul sangue. L’uragano
che avevamo scatenato era passato. Era durato sì e no mezzo minuto. Il vento
smise di trattenere il fiato, e ricominciò a spirare, a lente folate quasi
rassicuranti, come sospiri di sollievo, sulle nostre teste e sulle nostre
anime, sullo studio fotografico di Fly, su Fremont Street, e sulle staccionate
dell’OK Corral.
Cesare
Bartoccioni
18 giugno
2018
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