Capitolo quarto
LA LETTERA
Boulé d’Atene, dei gran cinquecento, su
Areopago giunta, teneva consiglio, del giorno l’epistate innalza il sigillo, e
gran discussione tra i pritani avvia. Atene per mare, e Sparta per terra,
senz’altro su questo ad accordo s’arriva, ma su chi comanda le schiere
d’opliti, ognun dei cinquanta tra i pritani pugna, che’l suo di guerrier vuol
porre alla testa. Le dieci tribù da Clistene fissate per l’Attica tutta ognuna
si pone in capo alle armate con proprio campione.
Fu Maris d’Atene la scelta diffusa, che mise
l’accordo da Eretteide a Antiochide; Asty e Paralia, e Mesogea tutta.
Temistocle, fiero, politico pronto, Maris
chiamò al suo fianco accanto.
“Maris! Atene e tutta con essa Attica miglior
scelta non fecer sì tattica, per affrontar le malefiche schiere dell’achemenide
nefasto arciere! Io, semplice arconte, a
nome di tutti, ti esprimo il mio più sincero…”
Brusio improvviso l’arconte interruppe, gli
sguardi buleuti alle spalle si volser, dal fondo del Tholos bizzarra figura
apparve incedendo, le gambe fasciate in foggia di Persia, un gran caffettano
fin alle caviglie, bianco e vermiglio sotto il corsetto, calzari di pelle con punta
ricurva, berretto di feltro calato sul capo, barba ben folta arricciata di
fresco, tabella di cera le mani reggean.
Temistocle irato la destra solleva col palmo
allargato all’intruso entrar nega.
“Come osa un cane persiano…”
“Pace, Temistocle!” Di Pandionide il re,
della terza tribù, la voce gli eleva. “È questo il mio araldo, oh arconte
potente, persona fidata, ch’è ben infiltrata alla corte di Serse, mi porta
novelle del nemico le mossa, ahò, ascoltarlo io chiedo se possa.”
“Sta bene, o amico, di Pandione eponimo, qui
ospite quindi sia pure il tuo anonimo.” E poi rivolgendosi al barbuto persiano,
Temistocle accenna a quel ch’avea in mano. “Un messaggio mi porta, dunque
l’araldo?”
“Sì, mio signore,” l’infiltrato rispose, “sta
sotto la cera, per gran precauzione.”
Con piedi veloci, qual ali vi avesse, avanzò
il persiano, sì ben agghindato, e l’asse cerato, con gran riverenza,
all’arconte protese con certa impazienza.
Temistocle all’erta gli occhi socchiuse, e da
tavoletta la cera n’estruse. Nascosto al di sotto, celato alla vista, apparve
il messaggio, accusa fatal, che d’un traditor rivelava la pista.
Temistocle saggio, politico pronto, il
meschin liquidò in neanche un secondo.
A Maris si volse, con lo sguardo oscuro, e lo
apostrofò infame spergiuro.
“Ah, tu! Qui eri intento! L’araldo è sì giunto
appena in tempo!”
Quindi l’arconte ai suoi cinquecento, lesse
la scritta, sollevando il mento.
“Maris
d’Atene gran generale, qui Persis tutta ti dona la dote, muovendo i tuoi opliti
per noi sul pianale, avrai poi il comando oh novello Cecrope, di tutte le genti
in Attica perse, e amicizia infinita del grande re Serse.”
“Tradimento! Tradimento!” Levaron le urla i
cinque per cento. “A morte Maris, traditor d’Atene, a morte, a morte, tra mille
pene!”
“No, aspettate, aspette un momento, ahò compatrioti,”
di Pandionide il re riprese favella, “nessuna follia, siam democrazia!” Poi
volse lo sguardo su tutti guardando. “Portate li cocci, qui tocca votarlo.”
“Ostrakon! Ostrakon!” Riprese la folla, di
nobili illustri qual vile plebaglia.
“Beh… guarda
un po’… è la prima volta che Ermes consegna una lettera propria, anche se
secondo me gliela deve aver scritta qualcun altro… Apollo, ci scommetto…
riconosco lo stile. Ad ogni modo… gli donano i vestiti persiani, vero, padre?”
Atena filava su nube d’Olimpo argentei raggi di luce lunare.
“Sì, figlia
mia… la barba soprattutto, nascondendogli il volto, gli fa far gran figura. Ma
dico… hai visto quell’altro degenerato, che fa finta d’esser il re della terza
tribù dell’Attica?”
“Mah…” Atena
continuava a tenere lo sguardo fisso sul suo lavoro di tessitura. “Ares è
sempre stato un po’ strano… Chissà come avrà fatto a sostituirsi al Pandionide
nella Boulé…”
“Eh…
conoscendo mio figlio… avrà semplicemente dato una mazzata in testa al vero re
buttandolo, magari, giù per un fosso…”
“Ma non
capisco cosa stanno tramando… Ne sai qualcosa, tu, padre mio?”
Zeus si
arricciò ben benino la barba.
“Non ne ho
nessuna idea, e francamente me ne infischio. Trattandosi di Ares e Ermes sarà
sicuramente qualche affare di gonnelle…”
Atena mosse
il capo in un cenno affermativo. “Eh già.”
“Ridicoli!”
Sbottò Zeus dopo un lungo istante di silenzio. “Ogni volta che si mischiano ai
mortali, quei due malanni si mettono a parlare in rima… Deficienti.”
Maris d’Atene, onore a salvare, chiese a
difesa di poter parlare.
“No, ora c’è il voto, vediamo le spoglie.”
Gli fece l’arconte, e tosto si mise a contar l’argille. Di quei cinquecento,
ben più di duecento ristetter con Maris, nulla vergando; ma democrazia,
com’Atene insegna, fa di maggioranza veridicità, e la più menzogna diventa
realtà.
“Tu or sei esiliato, e non più generale, vai
fuori dall’Attica, non farti trovare.”
“Bada Temistocle,” ribatte il gran Maris, “se
questo sistema da arconte tu avalli, un giorno anche a te potrebbe dannarti.
Pensalo meglio, Temistocle caro, non dare retta a infida canaglia, pensa a
com’ero in ogni battaglia, e vedi se mai di virtù io fui avaro.”
“Uff… figli
dannati. Or anche l’Olimpo han contaminato. Mi vien natural di decantar versi… giù
nel gran Tartaro li vorrei immersi!”
“Padre caro,
vedi anche tu, del parlare in rima ti sei contagiato!”
“Oh
dannazione! Hai tu pur ragione, ma evader non posso da tal condizione. Mi pare
una gara, o competizione, a chi la più grossa in rima la spara, ma io, per
Dioniso, ribellarmi dovrei, sono o non sono il re degli dei?”
“Eh, caro
mio padre, v’è poco da fare, in fondo poetare è un po’ come amare, bisogna
lasciarsi in dolcezza andare, e gioia e bellezza liber gustare.”
“Amare, sì
giusto, o saggia mia figlia, so ben, ora, come, lor render pariglia: in toro mi
muto, cervello minuto, muggisco soltanto in monotonia, e a vacche mi do, in
sana allegria.”
Uscì
dall’Olimpo, Zeus rinfrancato, ridendo e saltando, ad Atena ammiccando. “E
acqua in bocca con Era, mi raccomando!”
“Ah no, mio buon Maris! Mi chiedi tu troppo,”
Temistocle, il capo, dolente inchinava, e all’ex generale giustizia negava.
“Non posso macchiar, io, l’istituzione, pensata un bel tempo dal duro Dracone,
creata negli anni dal grande Solone, e infine compiuta, e certo nel bene, dal
saggio Clistene.”
Maris la destra allor sollevò, e il
palmo aperto alla folla mostrò.
“Non v’è più giustizia, o grandi ateniesi.
L’uomo non può più qui parlare, e la sua difesa non può praticare.” Il tono era
fermo, la schiena era dritta, il volto ben alto e l’espressione superba. “Ma
questa mano, che vedete di fronte, è mano pulita d’un uomo che Atene ha sempre con
vanto ed onore servita. Quest’uomo che sta or di fronte a voi, s’en va nell’esilio da voi decretato. Ma quest’uomo, ateniesi, un dì tornerà, non per
vendetta né rivalità, ma per mostrarvi dov’è la giustizia e dove sta invece la
nera calunnia. A testa alta io me n’andrò, a testa alta ritornerò.”
Si volse poi Maris, e senza null’altro,
d’esilio egli prese il cammino segnato. Il Tholos tagliò con passo solenne, e
due ali di folla gli fecer ventaglio. Per ultimo Clas il suo occhio incontrò.
“Beh, caro spartiate, dobbiam or lasciarci,
terremo le sfide per altri momenti.”
“Un corno, ateniese… Se il tuo buon Temistocle
da me salvarti, pensa inventando accusa mendace, di grosso si sbaglia, ti vo’ assicurare.
Ti attendo al varco, o mio generale.”
“Non tanto dovrai, attender lochagos, non durerà
molto, cotanto occaso.”
Sorriso negli occhi, quei grandi avversari, stringendosi
il polso, salutan leali.
“Meno di
quanto pensiate, cari mortali.” Gli occhi di giada della bella Afrodite, pur
nel volto teso, emanavano, come sempre, una luminosa e ammaliante dolcezza. La
dea si inchinò in avanti, sporgendosi elegante dal balcone d’Olimpo, e un piacevole
ghigno le si stagliò in volto, mentre osservava i sedicenti araldo e re che
seguitavano ad arringar in rima la folla della Boulé, giù nell’Attica.
“Volete la
guerra, cari fratellini? Bene. L’avrete.”
Cesare Bartoccioni, 21 aprile 2016
Rimaneggiato in poema epico, per disfida di Clas di Sparta, il 22 aprile
2016
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