Devi scrivere - primo racconto del 2024

 
Devi scrivere
 
racconto
 
di Cesare Bartoccioni
 
 
“Già, tu la fai facile.”
“Perché?”
“Sono stanco, non riesco.”
“Perché?”
“Ho dormito poco, per via d’un topo, ho vagato nella neve, ho guardato il cielo stellato, come non l’avevo visto dai tempi di...”
“Che c’entra?”
L’uomo, infagottato nel cappotto di feltro scolorito da tempo, le mani infilate, affossate, nelle ampie saccocce del pastrano, le braccia tese e irrigidite dalla temperatura di meno 22, percepita di meno 29, poggiò stancamente le spalle al palo di un lampione che sfrigolava nel gelo profondo che lo avvolgeva.
“Come, ‘che c’entra’?”
“Ti rimangono quattro ore, lo sai? Neanche.”
“Per cosa? Quattro ore neanche, per cosa?”
La voce dell’uomo era salita di mezza ottava, la stanchezza e l’insofferenza erano palpabili nel suono strozzato delle parole che uscivano dalla gola riarsa dal freddo, in nuvole di vapore le cui volute, a pochi millimetri dalla bocca, si tramutavano in fiocchi di brina, cadendo al suolo.
“Lo sai, per cosa.”
L’uomo sollevò lo sguardo di fronte a sé, come a guardare negli occhi il suo interlocutore. O, meglio, la sua interlocutrice. Che parlava sempre in tono gentile, con la voce calda e suadente, con cadenza musicale e ammaliante, e sempre convincente. Non vide nessuno, naturalmente.
“Già... ma a che serve?”
“A qualcosa servirà.”
“A niente.”
“A qualcuno, magari.”
“A nessuno.”
“E non ti basta?”
L’uomo sorrise, faticosamente, stirando le labbra i cui muscoli lottarono contro la morsa di ghiaccio in un ghigno beffardo.
Si staccò dal lampione. Il cappotto rimandò, al momento del distacco, un suono come di strappo. L’uomo, un passo stentato dopo l’altro, s’incamminò lungo la strada principale, sul marciapiede grigio e deserto, che costeggiava una strada senza veicoli né anime, che rispecchiava, sul lato opposto, un marciapiede gemello, nel colore e nella desolazione. Il silenzio avvolgeva la città, assoluto. Cassiopea splendeva in alto, luminosa e indifferente. L’uomo vagò con lo sguardo rapidamente verso nord-est, degnando Cefeo di un ammiccamento. Poi, volgendo gli occhi a ovest, da Perseo scese fino a Pegaso. Ecco, pensò, mi ci vorrebbe quello, me ne andrei...
“Dove?”
“Dove voglio.”
“Tipo?”
“Non so... a nord?”
“Non sei già a nord abbastanza?”
“Allora a sud”, fece l’uomo alzando le spalle.
“Già, ma intanto stai camminando verso l’Orsa Minore.”
L’uomo si fermò, esasperato. Inspirò profondamente e lentamente, e lentamente espirò.
“Devi scrivere.”
“Lo so.”
“E perché non lo fai?”
“Perché non ne ho voglia.”
“La voglia non c’entra. Hai tre ore e mezza.”
L’uomo si strinse nel tabarro. Si aggiustò il berretto di procione in testa. Riprese a camminare verso il limite della città. Verso il niente, in realtà.
“Che poi son tutte superstizioni.”
“Stai parlando con me?”
“No.”
“Stai parlando con me. Non c’è nessun altro qui.”
“Magari sto parlando con me stesso, no?” L’uomo s’infagottò ulteriormente nel bavero della spessa giubba.
“Stai parlando con me. Superstizioni?”
“Già.”
“Dici?”
“Dico.”
“E se fosse vero?”
“Pazienza.”
“Ti va di rischiare?”
“Bah.”
“Laggiù c’è un caffè.”
L’uomo alzò lo sguardo. In fondo alla strada, una strada senza fondo, sulla destra, a neanche duecento passi, una luce, fioca, arancione, invitante, si rifletteva sul piancito di gelo brillante.
“Non la voglio con te.”
“No?”
“No, la voglio con me, che ti sto a sentire.”
“Allora non mi ascoltare.”
L’uomo seguitò a camminare. La mano destra nella tasca giocherellò con il taccuino e con la matita che sempre teneva con sé.
“Ne ho passate, di avventure, per credere ancora alle superstizioni.”
“Tre ore, neanche.”
L’uomo s’intabarrò ancora di più, sollevando il bavero fin a coprirsi le orecchie.
“Tanto mi senti lo stesso.”
“Ho viaggiato, ho combattuto, ho tramato, ho ingannato, ho risolto stalli, con armi e cavalli, ho affrontato giganti, cannibali e paure dei naviganti, sono stato all’inferno e ne sono tornato, ho passato anni tra braccia d’amanti, e di chi voleva quel che mi vale, senza pietà ne ho fatto una strage.”
“E?”
“E dovrei credere a una stupida superstizione?”
“Allora non farlo. Scrivi domani.”
“Domani, domani... domani è tardi.”
“Per cosa?”
L’uomo sollevò lo sguardo al firmamento, si fermò un istante a fissare Alpheratz, una delle due, comunque.
“Non dirmi che alla fine... ci credi?”
“A cosa?”
“Al fatto che se non scrivi il primo dell’anno...”
“Ma va...”
L’uomo fece spallucce, si calcò il Davy Crockett ancora di più sul capo, sollevò di nuovo i lembi del bavero, e continuò a camminare. Certo, mugugnò tra sé e sé. Certo, come no. Il primo dell’anno. Sarà come ogni altro giorno, no? È solo una convenzione. Nient’altro.
“Guarda che ti sento.”
L’uomo seguitò a mettere un piede davanti all’altro, sempre meno lentamente.
Giunto alla luce arancione, volse il capo verso destra, apprezzando la porta a vetri del caffè. Un paio di avventori, all’interno, intorno a una stufa, un bicchiere di rosso sul tavolo e le mani verso il focolare.
L’atmosfera vaporosa che s’intravvedeva attraverso i cristalli dava un senso di accogliente intimità.
L’uomo batté i piedi sul marciapiede gelato, per liberarsi dai residui del nevischio che roteava nella leggera brezza pungente.
Entrò.
Si sedette a un posto libero, tra l’ingresso e il calorifero.
Ordinò un caffè.
Estrasse il taccuino e la matita e li posizionò sul tavolo.
Iniziò a scrivere.
 
 
1.1.2024

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