Capitolo quarto
IL MANGIAFUOCO
La parte
posteriore dello chapiteau, con l’apertura da cui erano spariti cilindro e
turbante al termine dello spettacolo ben richiusa con saldi legacci intrecciati
negli appositi occhielli, stava come invalicabile barriera a sbarrare il
ritorno all’esterno. L’uomo con la mantella lanciò al tendone solo una fugace
occhiata, mentre, chino e rapido, tagliava il cortile di paglia ed escrementi nella
sua decisa traiettoria verso la scura sagoma della baracca fumante acredine e
miasmi. Non aveva alcuna intenzione di uscire, non prima di aver completato il
lavoro iniziato quella sera, non prima di essersi ripreso ciò che era suo.
La cucina da
campo del Circo d’Oriente era un vagone lungo e largo, grande quasi il doppio
rispetto agli altri carrozzoni disposti in circolo nello spiazzo retrostante il
padiglione degli spettacoli, trasudante una lucida resina giallognola dalle
assi annerite dal fumo che, nero e pesante, in unte volute ricadeva dal fuligginoso
comignolo di metallo su tutti i lati del carro, sullo sterco di cammello
antistante la porta d’ingresso, sull’uomo dalla mantella che circospetto
lentamente ora avanzava, e sui due guardiani che, in rossa livrea stinta,
arrugginite mannaie in pugno, volti butterati e incolti, occhi abbruttiti e
spenti, presidiavano l’entrata come se, invece di cucina, fosse del sedicente
sultano sala del tesoro.
La presenza,
lì, di quei due bruti armati e ammantati di posticcia dignità, era la prima
conferma alle rivelazioni della donna cannone, ragionò l’uomo mentre si chinava
a rovistare tra la sabbia e la paglia a dieci passi dalla cucina. Trovato un
ciottolo, lo lanciò in una parabola oltre le teste dei due gorilla, quasi di
fatto quanto di nome, pensò.
Il rumore
sordo del tonfo del sasso fece volgere all’indietro, all’unisono, le due
sentinelle.
L’uomo,
Webley in pugno, balzò addosso alla guardia più vicina, quella sul lato sinistro
della porta. La canna della rivoltella premuta dal basso verso l’alto sul
fianco destro del bersaglio smorzò il rumore dello sparo, e il primo guardiano
se ne andò in silenzio all’altro mondo, con gli organi interni ridotti in poltiglia
dall’espansione dirompente della palla calibro .455.
Quel vecchio
trucco aveva sempre funzionato a dovere, nel Transvaal di tanti anni prima,
contro i commando boeri, nella guerra sporca a cui Kitchener, quello sì barone
vero, era stato costretto per aver ragione della guerriglia insorta dopo la
resa di Cronje al generale Roberts. E i boeri erano ossi duri, niente a che
vedere con quei circensi di pastafrolla, pavidi aguzzini di animali e di
ragazze.
L’altra
sentinella mancata si rese conto che qualcosa di strano era accaduto a un passo
di distanza, e iniziò a rigirarsi, sollevando d’istinto la mannaia, appena in
tempo per trovarsi la canna della pistola premuta sul plesso solare. La palla
uscì dal centro delle scapole, spappolando la colonna vertebrale e spedendo il
secondo guardiano a far compagnia al primo.
L’uomo volse
un rapido sguardo intorno. Nessuno. Spinse l’uscio della cucina ed entrò.
Il fumo che
avvolgeva l’esterno del vagone era, evidentemente, solo la mezza parte di
quello prodotto dalla cucina da campo. L’uomo dalla mantella si trovò immerso
in una grigia e aspra nebbia, e intravide di fronte a sé, lungo tutto il lato opposto
all’entrata, una vasca di lamiera piena di carboni ardenti, sopra i quali stavano
appese, assicurate a grossi uncini, ributtanti e oscene nel taglio grezzo da
macellaio grossolano, parti di carcassa di indecifrabile origine e stomachevole
olezzo.
Affaccendato
a quell’oblungo fornello, un essere gigantesco stava armeggiando con le adipose
manacce unte su dei pezzi informi di carne, dalle dimensioni di un pugno,
rigirandoli su una griglia posta a cavallo della vasca che fungeva da braciere.
All’estremo
lato sinistro dello spazio interno del carro, che nell’accecante fumo pareva
molto più ridotto rispetto alla dimensione del vagone, un enorme pentolone
ribolliva fino all’orlo d’una nauseante poltiglia informe, il cui liquido,
grasso e giallastro come la resina che rivestiva l’esterno della baracca,
traboccava lentamente e viscosamente fuori.
L’essere
ciclopico, la cui testa pelata a punta sfregava il soffitto del carro, lanciava
i pezzi di carne appena arrostiti nel calderone, senza guardare, centrando la
brodaglia con millimetrica precisione.
L’uomo con
la mantella si richiuse la porta alle spalle, e nell’avvicinarsi all’omaccione si
disse tra sé, en passant, che, per doverlo cucinare due volte, il rancio del
circo doveva essere ben coriaceo.
La donna
cannone aveva accennato a un passaggio. Era il momento di saperne di più.
Si schiarì
la voce, rumorosamente.
Il gigante
si voltò, inarcando le sopracciglia. La gran barba nera e folta che gli
arrivava alla pancia lo identificò all’istante come il mangiafuoco che aveva
immediatamente seguito, col suo numero di torce, l’apertura dello spettacolo
inaugurato dal lanciatore di coltelli.
“Chi sei
tu?”
Il vocione e
il tono duro erano, forse, intesi per incutere timore.
“Sono il
terrore.” La canna della Webley fu poggiata sul ginocchio sinistro del
mangiafuoco. La palla gli mandò la rotula in frantumi.
L’uomo dalla
mantella spinse la cerniera del revolver con il pollice destro, e con la
sinistra fece basculare canna e castello in
avanti, azionando così l’estrattore che espulse i sei bossoli esplosi
dall’inizio della sua missione. Lesto, in tre movimenti, infilò la sinistra nella
tasca della giubba, anch’essa di tweed, e a due cartucce per volta ricaricò il
tamburo, mentre il mangiafuoco, crollato sul pavimento impiastricciato di
grasso sporco e nero, emanava un acuto lamento di dolore, tenendosi la gamba
con le due mani a metà coscia.
“Smetti di
ululare, voglio che tu mi dica tutto delle ragazze… quelle segate.” Il tono di
voce dell’uomo con la Webley in mano era pacato, quasi consolatorio.
“Che? Eh? Ma
che vuoi?” La voce del mangiafuoco aveva acquisito un timbro quasi femminile. “Mi
hai azzoppato, gran figlio di centomila vermi! Ragazze? Quali rag…”
La canna di
nuovo poggiata, stavolta sul ginocchio destro, e la seconda rotula fu mandata
in pezzi come la prima.
Il
mangiafuoco iniziò a battere la nuca sul piancito, ripetutamente, impazzito dal
dolore. L’uomo dalla mantella gli accostò, sotto il naso, la canna del revolver
fumante.
“Ancora puoi
lavorare, con le tue ridicole torce e i tuoi distillati fasulli. Ma le prossime
due palle saranno per i gomiti. E ora parla.”
Il gigante
batté la testa all’indietro ancora per due volte, poi, vincendo il dolore
lancinante con un supremo sforzo teso a salvaguardarsi le braccia e
l’occupazione, iniziò a fare cenni affermativi col capo.
“E va bene,
bastardo. Ti dirò tutto quello che so.”
L’uomo con
la mantella accennò un vago sorriso. Anche coi boeri, anche coi commando più
duri, quel trattamento alle rotule aveva sempre funzionato, guadagnandogli
spesso dettagliate informazioni su posizione e consistenza dei guerriglieri a
cui lui e la sua banda di irregolari davano la caccia, in pieno territorio
nemico, per conto di Kitchener e in nome del Re.
“Sto
ascoltando.”
Il
mangiafuoco deglutì. Si schiarì la voce che, a poco a poco, aveva ripreso il
tono basso iniziale. Poi fece un altro cenno col capo.
“Quei due…
Philippe e Renatin… hanno cominciato quel loro giochetto anni fa… a ogni
spettacolo c’è sempre qualcuna che si offre. Loro la prendono… e la segano in
due. Poi… dopo lo spettacolo… mentre tutti gli sguardi sono fissi sul coniglio…
la cassa viene portata qui.”
“E le
ragazze che fine fanno?” L’uomo dalla mantella passò in rassegna i quarti di
carcassa appesi agli uncini sopra la brace.
“Fanno il
passaggio.”
“Passaggio?
Passaggio dove?”
“Questo
posso dirtelo io.”
L’uomo dalla
mantella s’irrigidì, sorpreso. Non aveva sentito alcun rumore. La porta d’ingresso,
su cui aveva continuato a tenere un occhio durante l’interrogatorio del
mangiafuoco, era rimasta chiusa. La voce proveniva dal lato del calderone, ed
era, inconfondibile, la voce stridula che, durante lo spettacolo, aveva
pronunciato, eccitata, “Io! Io!”.
L’uomo si
volse, sollevando la rivoltella, ma ebbe appena il tempo di riconoscere la
biondina segata in due la sera stessa, e che ora stava lì, alle sue spalle,
tutta d’un pezzo.
“Dove vai
con quel pistolone? Sei mica un cowboy, eh?”
L’uomo non
vide con cosa la ragazza lo colpì. Vide solo il fumo diventare più denso, lo
spazio interno del carro restringerglisi intorno, la notte scendergli negli
occhi e nei sensi.
Cesare
Bartoccioni
28 aprile
2016
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