Titolo (da definire)
Il telefono continua a squillare. Devo rispondere, lo so. E so anche chi mi sta chiamando.
Al settimo squillo allontano le falangi dalla tastiera, allungo la sinistra e sollevo la cornetta.
“Sì?”
“Allora?”
La voce all’altro capo del filo mi è ben nota; d’altra parte, come ho scritto sopra, sapevo chi mi stesse chiamando.
“Allora che?”, provo a fare l’indiano.
“Dai, non farmi perdere tempo”, mi risponde sbuffando l’interlocutore. Lo stress di una vita stressata vissuta stressatamente è lampante nel suo tono nasale come il sole a mezzogiorno in piena estate, “come sarebbe allora che? Il racconto!”
“Ah, il racconto.”
“Beh?”
Un lungo attimo di silenzio, mentre sto cercando le parole giuste. Poi la voce continua.
“Beh? Allora? Come sei messo? La redazione attende, stiamo andando in stampa. Domani è Natale e dovevi mandarmi il racconto già ieri al più tardi.”
“Certo”, cerco di mantenere un tono neutrale. Mica posso dire che non ho avuto l’ispirazione, che non posso scrivere sempre a comando, che ho bisogno di tranquillità e non di gente che mi stia col fiato sul collo ogni giorno. Non posso dirglielo. È un editore. Non capirebbe.
“Allora? Non ho tutta la giornata. Come sei messo? A che punto è il racconto?”
Sposto lo sguardo, che fino a quel momento avevo tenuto fisso su un punto indefinito oltre la mano che sostiene il ricevitore, sullo schermo luminoso dove una bianca pagina di Word sembra ammiccarmi beffarda nel pulsare del cursore. Non ho deciso neanche il titolo.
“È quasi finito.”
“Bene, allora stammi a sentire. Devi inviarlo al solito indirizzo e-mail entro 31 minuti max, perché alle sedici e trenta stacchiamo le rotative, d’accordo?”
“Ehm”, mi schiarisco leggermente la voce, “forse avrei bisogno di un po’ più di tempo, sai, nel senso... vorrei anche revisionarlo prima di...”
“Ma lascia perdere, va, quale revisione? Quella la fa la AI, ormai, da un pezzo, tu bada a inviarcelo, poi al lavoro vero ci pensiamo noi.”
“Beh, è che volevo mandarlo già...”
“Basta così. Ne abbiamo già parlato, e diverse volte, mi pare. Tu bada a spedircelo entro le sedici e trenta, anzi, fai sedici e venti, va, che oggi è la Vigilia e volevo far prendere un’oretta di ferie in più ai tipografi.”
“Va be’...”, allargo mentalmente le braccia, “vedrò di farcela, non sia mai che i tipografi debbano star lì un’ora in più per colpa mia...”
“Esatto, bravo. Vedo che cominci a capire. Lo attendiamo allora, e, ah... un’ultima cosa...”
Resto rassegnatamente in attesa, tanto so già cosa sto per sentire.
“Ricordati la clausola 66 eh? Eh, eh...”
Il clic della comunicazione interrotta mi risuona nella mente con l’eco della risatina del mio editore.
La clausola 66. Accidenti a me e a quando ho firmato quel contratto. Va be’ che non c’erano alternative. Era un classico contratto capestro dove o bevi o affoghi.
La clausola 66. La posso recitare a memoria, direttamente qui, in un bel corsivo arzigogolato.
L’autore è tenuto a fornire, oltre ai romanzi stabiliti dal presente
contratto, un racconto di Natale per ogni Natale da qui al 2037. La mancata
consegna nei termini prescritti di tale racconto comporta automaticamente la
rinuncia da parte dell’autore stesso a tutte le royalties eventualmente
maturate nell’anno di riferimento. La reiterata mancanza di consegna comporta il
licenziamento in tronco dell’autore con successiva facoltà dell’editore di
adire le vie legali per il recupero del mancato introito, il cui ammontare
verrà stabilito dallo stesso editore in base al proprio insindacabile giudizio.
In riferimento alla presente clausola 66, non sono ammesse motivazioni di causa
maggiore, né altre tipologie di giustificazioni. L’autore, firmando in calce,
rinuncia espressamente a qualsiasi tipo di rivalsa nei confronti dell’editore.
Va be’, intanto di minuti me ne sono rimasti ventisette. E la pagina è ancora bianca.
Volgo leggermente il capo verso destra, all’indietro, fino a inquadrare di sottecchi, con la visione periferica, la figura attempata che se ne sta tranquilla e beata a riscaldarsi di fronte al focolare.
“Che devo fare, secondo te, ba’?”
Babbo mi risponde facendo spallucce, come fa sempre. Quindi tira un paio di boccate dalla pipa e, con la sua quieta voce baritonale, mi ribatte mentre esala il fumo del tabacco aromatico.
“Ma che te ne frega.”
“Eh, dai, ba’, come? Come sarebbe? La conosci anche tu, quella clausola del contratto, no?”
“Certo. E infatti, se ti ricordi, ti avevo detto di non firmarla, anzi di sputarci sopra, arrotolare ben bene quella rismetta di fogli e di...”
“Ok, ok, basta così, ba’. Sì, sì, mi ricordo. Ma che avrei dovuto fare, continuare a pubblicarmi da me? Il self-publishing, oggettivamente, ha dei limiti che...”
Babbo è tornato a rimirare la brace. Mi dà le spalle. Lo sento anche senza guardarlo direttamente.
Mi rimetto, zitto e buono, di fronte alla pagina bianca di Word, con il cursore che lampeggia, che ammicca.
Passano lunghi momenti di silenzio. Cerco di concentrarmi. Niente. Non mi viene neanche una parola. Men che meno il titolo. Da definire. Eh, già. Da definire. Da finire, più che altro. Ma per finire bisogna prima cominciare.
Percepisco che babbo si è alzato in piedi, si stira le membra, tira un altro paio di boccate dalla pipa. Fa così quando sta per parlare, quando sta per dare qualche consiglio.
Mi immobilizzo in attesa, le dita dall’indice al mignolo sulle lettere “f d s a” a sinistra e “j k l ò” a destra, il pollice destro sulla barra spazio. Come se stessi per iniziare a battere. Come se babbo se la potesse anche lontanamente bere.
“Al limite...”, comincia con la sua bella voce profonda da baritono. Io sono tutto orecchi, anzi, sento che i padiglioni auricolari mi si rizzano sulla testa.
“Al limite...”, riprende babbo, “glielo mandi così.”
Resto senza parole. Così come?
“Così come, babbo?”, esclamo fissando la pagina bianca. Mica posso mandare una pagina bianca...
“Babbo, ma guarda,” cerco di spiegare, “non ho scritto niente. Mica posso mandare una pagina bianca...”
“Questo perché non sai osservare.”
Di nuovo senza parole, mi sento bloccato sulla tastiera. Osservare? Ma osservare che? Non è che babbo comincia ad avere qualche principio di Alzheimer? Ci mancherebbe anche questo.
“In che senso, ba... babbo...?”, inizio a balbettare, “Cioè... Osservare che? La pagina è bianca, è vuota, non ho scritto niente.”
La figura alle mie spalle, da davanti al caminetto, irrompe in una sonora risata, pur sommessa nella sua sonorità, e gradevole come sempre.
“Nessuna pagina è mai veramente bianca, caro mio. Nessuna pagina è mai veramente vuota.”
Tolgo le mani dalla tastiera, me le poso in grembo. Non ci sono più dubbi. Babbo è fuori di testa.
Sento le sue calde mani che mi si poggiano sulle spalle. Una gradevole carezza, piena di calore, piena di amore.
Babbo si abbassa fino ad avvicinare il suo volto alla mia nuca. Poi la sua voce, sonora, nitida, consolatoria, riprende.
“Quanti sogni ci sono in una pagina bianca? Quante sofferenze? Quante idee? Quanti progetti? Quanti ripensamenti? Quante euforie e quanti rimpianti? Quante vittorie e quante sconfitte? Dici che non ci sono parole nella tua pagina bianca. Guarda meglio, ne vedrai a migliaia. Dammi retta. Mandala così. Ora ti saluto, che devo andare.”
La figura si allontana da me. Mi volto a guardarla. Babbo si è vestito. Il berretto rosso col pompom bianco gli sta benissimo su quella candida barba. È un po’ in carne, ma il cappotto, rosso anch’esso, gli cade addosso in modo perfetto. Raccoglie un gonfio sacco di juta da davanti al caminetto. Mi saluta con un cenno della mano e prende la porta.
Torno con lo sguardo allo schermo. Rimetto le mani sulla tastiera. Babbo ha ragione, la pagina è piena di parole, ce ne saranno almeno milletrecento...
Allego il file all’e-mail. Tanto, rifletto facendo spallucce, alla revisione penserà la AI. Gli altri manco lo leggeranno. Chi se ne frega.
Clicco su invio.
Cesare Bartoccioni
Racconto di Natale 2025
Nessun commento:
Posta un commento