Capitolo undicesimo
IL DOMATORE
L’odalisca stretta al petto, l’uomo con la
mantella sentì sorgersi dentro, per la prima volta nella sua vita, l’impellente
bisogno di dover proteggere qualcuno.
Per qualche strano motivo, che non sapeva
spiegarsi, gli pareva di conoscere quella ragazza da una vita, e gli pareva che
della sua vita avesse sempre fatto parte.
Giunto sul lato del recinto opposto al
tendone, l’uomo si fermò un istante, osservando, al centro del cerchio dei
carri, le gabbie delle belve che aveva notato al suo ingresso in quel mondo
infernale, appena poche ore prima, ore che gli parevano mesi.
I leoni dormicchiavano quieti dietro le
sbarre, le criniere folte e lucenti, le zampe grandi e possenti. L’uomo con la
mantella guardò, per un lungo momento, il piccolo carro di legno con il tetto
bombato che spiccava al centro delle gabbie. Quindi avanzò, sperando di
trovarvi ciò di cui aveva bisogno.
Non era il momento di andare troppo per il
sottile. Il ricordo della figura che aveva visto in mezzo allo spazio del circo
al tempo del trapasso del baro, e che ora contava di rincontrare lì nel carro,
non gli ispirava null’altro che modi spicci e piedi di piombo.
Con un calcio ben assestato, l’uomo dalla
mantella spalancò la leggera porticina del vagone ed entrò rapido
richiudendosela alle spalle.
Il domatore di leoni, svegliato di
soprassalto, si sollevò dalla brandina facendo per reagire, ma una botta secca
menata con la canna della Webley in mezzo alla sommità del capo lo ributtò sul
giaciglio.
Il malcapitato si portò le mani sulla pelata
sanguinante, strizzando le palpebre in una smorfia di dolore.
“Dannazione!” La voce del domatore, roca e
rabbiosa, fece risuonare, nella mente dell’uomo
con la Webley in pugno, una lontana, sperduta, attutita campanella. Forse un
allarme, sopito nel sesto senso che l’uomo, in più occasioni, aveva imparato a
rispettare, nell’assolato Transvaal in rivolta, negli oscuri templi dei Thug,
nelle strade senza legge del Punjab.
“Ma che diavolo…” il domatore fu interrotto
dal sonoro clic del cane della Webley che si armava.
“Fai silenzio.” L’uomo dalla mantella aveva
un tono grave, ma calmo. “Togliti dalla branda.”
Il domatore di leoni obbedì. Si scostò verso
la parete del carro sul lato corto a sinistra della porta d’ingresso, dove
crollò seduto, con le mani strette sulla testa dolorante.
L’uomo, rapido, adagiò l’odalisca sul lettino.
Si diresse quindi in modo perentorio al suo prigioniero.
“Tu la curerai.”
Il domatore, nel buio del carro, appena
rischiarato dalla luce lunare della notte, strizzò gli occhi, come a cercare di
capirci qualcosa.
“Non cercare di fare il furbo. Non ho tempo
da perdere.” L’uomo dalla mantella accompagnò le parole con eloquenti movimenti
della canna della rivoltella. “So bene che ogni ammaestratore che si rispetti è in
grado di prendersi cura dei propri animali. Beh, veterinario addomesticatore,
considerati da ora un medico a tutti gli effetti. Devi salvare questa ragazza. E
salverai così anche te stesso.”
Il domatore si mosse, incomodo, come a voler
cambiare posizione.
“E… se non fosse possibile salvarla?” La voce
uscì sforzata per la pena che, palesemente, la botta sul capo gli faceva ancora provare,
ma era ferma, senza ombra di paura.
“In quel caso… morirai.” L’accento era chiaro
e limpido. Non era un bluff.
Il domatore mosse il capo in cenno
affermativo.
“Bene. Va bene.” Si avvicinò. L’uomo con la
mantella si ritrasse leggermente, in modo da tenere l’altro sotto tiro senza
rischiare di farsi sopraffare. “Ho bisogno di un lume.”
Senza attendere risposta, il domatore prese
una lampada a olio da uno sgabello accanto alla brandina, e ne sollevò lo
stoppino, già acceso, che rischiarò l’interno del carro.
L’uomo con la mantella, fissando il volto del
suo nolente ospite, comprese all’istante il senso della strana sensazione
percepita poc’anzi, quando del domatore aveva udito la voce.
Il domatore, dal canto suo, buttò un occhio
sull’intruso, che lo stava tenendo sotto tiro con un tipo di arma ben conosciuta,
e spalancò la bocca e gli occhi in un moto di sorpresa. Il suono della parola
che gli uscì di bocca, ora, non era più roco, né dolorante, né rabbioso. Era la
pura quintessenza dell’incredulità.
“Capitano!”
Cesare Bartoccioni, 16 aprile 2017
Nessun commento:
Posta un commento