La macchina del tempo - racconto di fantascienza



LA MACCHINA DEL TEMPO

 

di Cesare Bartoccioni

 

 

Mercoledì, ore 18.

Il mio nome è Joshua Tender e, come sapete, sono il Direttore Generale dell’Ufficio Terrestre Ricerche e Scoperte. Inutile che vi ricordi le innumerevoli invenzioni di cui il mio dipartimento si pregia di onorarsi. Sono tante. Una per ogni mio capello bianco. Una per ogni ruga che mi solca il volto. Potrei star qui ad elencarvele per ore: la propulsione a curvatura magnetica che ci ha permesso di raggiungere nuovi mondi abitati, il frigo-robot che si reca al supermercato in autonomia, il cibo auto-cucinante, i vestiti auto-lavanti, la casa autopulente, la mazza da golf automatica, la lavagna d’ardesia dittografica, il motore perpetuo, e via via fino al teletrasporto a breve raggio e alla TV quadridimensionale. Certo, queste ultime due innovazioni, nella fattispecie, devono essere ancora perfezionate. Per quanto riguarda il teletrasporto, vi confermo che effettueremo tutte le regolazioni del caso non appena avremo ritrovato i primi quattro volontari. Il nuovo set televisivo, pure, sarà riprogettato per ridurre i casi di SFAT, cioè di sindrome di follia acuta da teledipendenza, a una percentuale di pubblico accettabile e sostenibile, di comune accordo con l’agenzia nazionale auditel e le principali gilde di réclame.

Ma non è di questo che oggi voglio parlarvi. Perché oggi, miei cari futuri lettori di questo mio pixel-dittafono elettronico, abbiamo forse fra le mani l’ultima, definitiva, invenzione umana.

La macchina del tempo!

Ma lasciate che vi racconti tutto dall’inizio. Stamattina, Vanessa Simmons, la mia segretaria, è entrata tutta pimpante nel mio studio.

 

***

 

Mercoledì, ore 09.

“Dottore, dottore!” La voce argentina e allegra faceva il paio perfetto con il sorriso aperto e gli occhi neri brillanti della slanciata ragazza.

“Signorina Simmons, che succede?” Il Dottor Tender aveva sollevato lo sguardo dal monitor antiriflesso in cui scorrevano gli schemi dei nuovi progetti, abbassandosi al contempo, sulla punta del naso, gli occhiali da lettura.

“Ho una nuova macchina da sottoporle, dottore.” La Signorina Simmons era rimasta in attesa, le braccia conserte.

“Lei, Signorina?” Il Dottor Tender aveva assunto un’aria incredula. Le nuove proposte provenivano, normalmente, dal Reparto Innovazione.

La Signorina Simmons aveva ammiccato, quindi, senza ribattere, aveva posato sulla scrivania del luminare due strani marchingegni.

Il Dottor Tender li aveva osservati a lungo, con un’aria di scetticismo misto a incomprensione.

“E questi che sarebbero?”

“È una macchina del tempo, dottore. Sta a lei comprenderne il funzionamento.” La Signorina Simmons, senza null’altro aggiungere, dopo essersi aggiustata rapidamente i capelli a caschetto passandovi le dita affusolate della mano destra, si era profusa in un volitivo dietrofront e aveva lasciato l’ufficio.

 

***

 

Mercoledì, ore 19.

Bene, miei cari futuri ascoltatori, ora dovete sapere che Vanessa Simmons è un tipo un po’… particolare, diciamo. Insomma, sempre con la testa fra le nuvole. Sarei tentato, quindi, di non dare troppo credito alle sue dichiarazioni. Tuttavia, per il ruolo che ricopro, non solo quello di estensore del progresso scientifico e tecnologico, ma anche quello di tutore dei legittimi interessi degli azionisti della mia azienda, tra cui si annoverano, è d’uopo ricordare, non solo grandi gruppi istituzionali e finanziari terrestri, ma altresì marziani, venusiani e C-epsilon-eridani, ritengo mio dovere non sottovalutare alcun tipo di invenzione, per quanto effimero e inconsistente possa apparire a prima vista.

Passo dunque, senz’altro indugio, all’analisi di questi due bizzarri oggetti lasciatimi in valutazione dalla nostra Vanessa, ehm, cioè, voglio dire, Signorina Simmons.

Dunque. Un dispositivo è grande, l’altro è piccolo. Iniziamo dal grande. Si tratta di una lamina dalla forma rettangolare regolare, flessibile, vagamente ruvida al tatto, di un colore lattiginoso. È molto sottile, tanto che, guardandola di profilo, appena se ne apprezza lo spessore. La grandezza di questo primo marchingegno corrisponde più o meno a un paio di palmi delle mani. Per il resto, non vi sono altre caratteristiche di rilievo. Non paiono esservi attacchi per alimentazione, né porte USB, né pulsanti o cursori di alcun tipo. Chissà, probabilmente il funzionamento è un qualche tipo di Wi-Fi. L’unica peculiarità osservabile sono delle linee parallele che corrono per tutta la sua superficie. Mah. Lasciamo per ora questo dispositivo da parte e passiamo all’analisi dell’altro, quello piccolo.

Allora, in questo caso si tratta di una forma cilindrica di color argento, con un diametro medio di circa 1 centimetro e una lunghezza di circa 15. Anche qui, non vi sono elementi distintivi che possano far pensare a un qualche tipo di collegamento, tantomeno con il primo dispositivo, che ne pare altrettanto sprovvisto. Il cilindro è sormontato, a un'estremità, da un altro cilindro di diametro leggermente ridotto. Proviamo a controllarlo. Niente, sto provando a ruotarlo, tirarlo… Ecco. Ora l’ho spinto. La pressione ha fatto fuoriuscire dall'estremità opposta del cilindro più grande un tronco di cono, dalla natura imperscrutabile. Forse si tratta dell’attivazione del collegamento Wi-Fi con l’altro marchingegno. Verifico il dispositivo maggiore. Niente. È tutto come prima. Torniamo sul cilindro. Provo a passarvi le dita su ogni singolo millimetro quadrato di superficie, tante volte si attivasse qualche tipo di comando, sperando sempre che questa macchina del tempo non si accenda all’improvviso. Non vorrei ritrovarmi, senza volerlo, in qualche epoca oscura, che so, il 1665, o il 2020…

Mmh. Che strano. Il contatto con la punta del tronco di cono mi ha causato uno strano livido bluastro sul polpastrello dell’indice sinistro, una riga lucida. Ah, no. Non è un livido. È una specie di… tintura, oserei dire. Replicando il contatto sul palmo della mano, noto che tali righe si ripetono, a ogni tocco, a ogni strisciata. Beh, spero solo che non si tratti di una qualche particella quantica che possa interferire con la mia struttura molecolare. Ad ogni modo, non sento alcun dolore. Sono solo, prosaicamente, sporco.

Riprendo in mano il dispositivo più grande. Vediamo se riesco a capirci qualc… Ops. Ho inavvertitamente toccato la punta del tronco di cono del cilindro sulla lamina biancastra. È apparsa una striatura bluastra del tutto simile a quelle che mi sono rimaste sulla pelle. Ma, sulla superficie di questa macchina, devo dire che tali linee risultano molto più nette, di un bell’azzurro scuro. Il solo guardarle dona un senso di indubbio piacere. Ora sto visionando la lamina, rigirandomela fra le mani, osservando le righe blu. Un momento. Adesso, in controluce, pare apparire qualcosa, che prima non avevo rilevato. Una specie di punzone microchip… no… quasi una… direi una filigrana. Una scritta.

Carta da lettera.

 

 

 

FINE 

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