IL
DISCO LUMINOSO
racconto
di
Cesare Bartoccioni
Appennino Umbro-Marchigiano, dicembre 2018
Gianni si
era appena posizionato, a una decina di passi da me. Io poggiai la schiena al
tronco del faggio, il mio calibro 12 tenuto a due mani all’altezza del bacino.
Dovevamo solo attendere. I cani avrebbero fatto il resto.
Quello che
ci sbucò di fronte, dal bosco, non era proprio ciò che ci aspettavamo.
Sembrava uno
pneumatico, talmente luminoso da non lasciar apprezzare alcun eventuale dettaglio
superficiale. Pareva ruotare in orizzontale su se stesso, parallelamente al
terreno, ed emetteva un rumore strano, una specie di ronzio, continuo. Se ne
stava fermo, in volo, poco sopra la linea dello sguardo.
“Fagli una
foto, dai!”
“Ssh! Zitto,
che i cani stanno pasturando.”
Nel mentre
che Gianni mi stava rispondendo, il disco, dopo essersi arrestato un istante a
mezz’aria, si diresse lentamente ma decisamente verso di me.
Io non avevo
niente con cui fotografarlo.
Imbracciai
il semiautomatico, puntai. Il mirino collimò perfettamente con la tacca di
mira, sullo sfondo lucente del misterioso oggetto.
Premetti il
grilletto. Il colpo investì in pieno il disco, spingendolo indietro di un paio
di metri. Non cadde, tuttavia, rinculando invece verso di me con un ronzio
ancora più sonoro. Minaccioso.
‘Ah sì?’,
pensai. ‘La prima era del sette, ma queste sono un sei e un quattro, vediamo
come te la cavi.’
Mirai e
tirai il grilletto altre due volte, in rapida successione, praticamente a
bruciapelo.
Il disco fu
di nuovo spinto verso il faggeto. Ma di nuovo restò in aria, tornando a
puntarmi ancora più veloce.
Non avevo
più colpi. Mi restava solo una cosa da fare.
Attesi
finché l’artefatto mi giunse a distanza di braccio, e con un rapido movimento
del busto lo colpii con un moto in diagonale dall’alto verso il basso, col
calcio del fucile.
Stavolta il
disco cominciò a rotolare a mezz’aria in maniera scomposta, precipitando poi
fino a sbattere su una roccia che sbucava dalle radici del faggio a cui mi ero addossato
fino a poco prima.
Lì, al
suolo, una specie di coperchio si aprì sulla parte superiore della strana
ruota, dal cui interno uscirono tre figure minuscole, alte nemmeno un palmo.
La testa
ovale, dove si discernevano solo dei grandi occhi neri e bui. Si muovevano
rapidamente su quattro gambe. Non si distingueva se fossero vestiti o meno, ma
il colorito della loro superficie era uniforme da capo a piedi, di un marrone
unto puntellato di piccole macchie verdi qua e là. Uno dei tre congiunse le
braccia come ad indicarmi. Ebbi appena il tempo di accorgermi di un minuscolo arnese argentato, qualcosa che finiva in una
parabola, quando un energico strattone alla manica destra mi fece spostare di
mezzo passo. Dalla parabola impugnata dall’essere uscì un raggio blu, un cono
intercalato da cerchi, blu anch’essi, che sfiorandomi mi oltrepassò ampliandosi
sempre di più, accompagnato da un suono come di Hammond. L’immediato odore di
bruciato mi fece volgere il capo verso la direzione presa dal fascio luminoso.
Nel bosco alle mie spalle la traccia lasciata dal raggio conico si apprezzava
alla perfezione nella distesa di carboni ardenti che avevano preso il posto dei
pini lì presenti fino a un attimo prima.
Due fucilate
mi fecero tornare con lo sguardo agli esseri e al disco aperto ai piedi del
faggio.
Gianni era
entrato in azione. Il minuscolo tizio che mi aveva sparato e un altro dei suoi compari giacevano al suolo, a brandelli. Il terzo fece per allontanarsi verso
il faggeto. Lo raggiunsi in due falcate e lo colpii ripetutamente dall’alto in
basso col calcio del fucile, spiaccicandolo a terra.
Rimanemmo per
lunghi secondi a guardare la scena.
“Che
facciamo?”
Gianni mi
diede una pacca sulla spalla.
“Li
seppelliamo.”
Il terreno
bruciacchiato dal raggio conico offrì poca resistenza ai nostri coltellacci.
Bastò una buca larga mezzo metro e profonda trenta centimetri per contenere il
tutto. In lontananza, un tetro ululare di lupi accompagnò l’estemporaneo
funerale.
Udimmo i
campanacci dei cani nel faggeto. Ci fissammo per un secondo, poi tornammo alle postazioni
originali al bordo del boschetto.
Restammo in
attesa.
“Gianni…”
“Che c’è?”
Inspirai
profondamente, espirando in un sospiro.
“Mi sa che
ho appena fatto scoppiare una guerra intergalattica.”
Gianni restò
in silenzio per qualche secondo. Poi fece spallucce.
“O forse l’abbiamo
appena evitata.”
“Ma... ”
“Ssh! I cani
stanno pasturando.”
FINE
01 gennaio 2019
01 gennaio 2019
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