I due titani - capitolo settimo: Delfi



Capitolo settimo
DELFI

Nel sole caldo serale e stancante, arranca Maris sì pien di speranze, cammina ritto su quella Via Sacra, verso d’Apollo quel maestoso tempio, per far la prova di non esser empio. Lì già la Pizia l’attende aggraziata, dolce sul tripode quieta e seduta, chiuse le palpebre sulla fessura, donde il vapore per la sua visione darà a quel milite la soluzione. Maris si ferma e rimira il Corinto, laggiù sul golfo la luce s’arrossa, fondo respiro da sforzo sospinto, fida tornar con l’onore e con l’ossa.

“Ah! Guardalo! Non riesce neanche a finire i passi che lo separano dal tempio.” Ermes, con tono insolente, batte ridente l’omero sinistro di Apollo. “Eh, fratellino mio, mi sa che tutti i nostri sforzi sono stati superflui, potevamo benissimo lasciarlo tranquillo a cuocersi nel suo brodo…!”
“Mah…” Apollo, facendo spallucce, indica col mento la sua sacerdotessa, che, ancora a palpebre serrate, sembra già in uno stato di trance profonda. “Perché rischiare?”

Volge lo sguardo oramai il gran guerriero, non è più tempo di luce e paesaggi, il suo destin ora è ben che l’assaggi, torna convinto sul sacro sentiero. Giunto che fu alla Castalia sorgente, in abluzioni egli tosto si mette, e ad alta fronte e ben purificato, arriva all’omphalos luogo del fato.
'Gnōthi sautón' l’iscrizione lo accoglie, fiero il buon Maris senz’ombre né doglie, guarda la Pizia che ancor non s’è desta, mette in lei il cuore il futuro e la testa.
Alza le ciglia la sacerdotessa, mostra i suoi occhi sulla pietra fessa, e tra’l vapore di divinazione, spande il suo giada con costernazione degli dui dei che ridevan lassù, e che già ormai non sghignazzano più.

“Ma…” Ermes, nella più nera desolazione, cerca con le parole di esorcizzare ciò che, di già, ha capito fin troppo bene. “Non erano neri, gli occhi della…?”
“Eh sì!” Apollo, distratto dalla contemplazione del rosso occhio del toro tessuto poc’anzi da Atena, si era perso il verde climax della rivelazione. “Nerissimi. Ah, che bellezza, la mia Pizia, vedessi, Ermes… Devi sapere, fratellino, che quando le sono entrato… di prepotenza… nel sogno…”
La mano sull’avambraccio del Musagete, dura e dolente del tristo psicopompo, ne interrompe l’erotica giaculatoria.
“Beh? Che c’è? Da quando ti disturba il racconto delle mie prod…”
“Guarda giù!”
L’urlo disperato del postino alato fa spostare lo sguardo del Lukeios immediatamente al suo bel tempio e alla pantomima che sta per andarvi in scena.
Apollo osserva la sua Pizia, e comincia a balbettare.
“Ma… que… quella… è… A… A… frodite!”
“Ehhh! Bravo! Ehh!” Ermes, il controllo di nuovo perduto, il caduceo che di nuovo batte ripetutamente il suolo del giardino d’Olimpo, sfoga la sua impotenza canzonando il bel fratello. “Bravo! Bravo! Ehh! A… A… A… frodite! A… A… A… frodite! Maledetta! Maledetta!”
“Ehi, calmati!” Apollo, liberatosi dalla stretta sul livido avambraccio, con gentili pacche sulle spalle cerca invano di placare le ire del pleiadico fratello. “Ancora non ha parlato… no? Non sappiamo ancora cosa dirà…” Apollo, nel mentre che tali ultime parole pronunciava, si rendeva già conto della loro inconsistenza.
“E che vuoi che dirà?” Sempre urlando, Ermes pesta i piedi e batte le alette ai calcagni. “Che vuoi che dirà? ‘Sì, buon milite, ti confermo la correttezza dell’esilio, così ora mi dovrò sacrificare a quel porco del mio fratellastro’, eh? Che pensi?”

“Del sacro Apollo benvenuto al tempio, Maris d’Atene, su entra pur dentro.” La Pizia invita con voce suadente, che par al milite sua conoscente. Passa il guerriero sulla crepidoma, posa il suo piede sullo stilobate, entra tra doriche colonne avite, ed alla donna di fronte si pone.
Maris s’inchina e poi fa per parlare, ma la ragazza con cenno gentile, la bella destra elegante e lucente, tosto interrompe quel gran generale.
“So già” lei dice “perché tu sei qui. Il torto fattoti in quel nero dì, tutto l’Epiro ha fin meco viaggiato, e tutta l’Attica ha già amareggiato. Più non v’è tempo che al bello ti scosti, che l’Achemenide coi sottoposti, ha oramai rotto le tregue e gli indugi, ed or conviene che tu te ne curi.”
Solleva il capo felice il buon Maris, staglia un sorriso nel signoril volto, pensa già mettere mano al suo aspis, e col suo xiphos tornar al suo mondo.
“Sappiasi bene!” Si alza la Pizia, erta bellissima e dice in letizia, “Che quell’esilio per te decretato, non è più valido è stato annullato; Apollo stesso venutomi in seno, m’ha dipanato l’oltraggio a te estremo, sol tradimento t’ha quindi dannato, torna dai tuoi, or non sei più macchiato.”
Così dicendo fa un cenno la Pizia, s’inchina Maris senza più mestizia, rimena quindi il di nuovo soldato, nel lungo viaggio al suo legno ancorato, che nel bel golfo sì attende nel porto, Maris d’Atene qual morto risorto.

“’Venutomi in seno’…” Ermes, con la palma della destra, dà un buffetto all’avambraccio ancora dolorante di Apollo. “Ti prende anche per i fondelli, quella…”
“Beh… mi dispiace, fratellino.” Scuote sconsolato il capo lo splendente. “Ma come avrà fatto a…”
“Fratelli miei! Siete senza speranza.” I due miseri cospiratori si girarono all’unisono verso l’origine del cocente rimprovero. Atena, in bianca veste con lunghi strascichi che si perdevano nel tappeto nimbeo del giardino, era già all’opera sul tuo telaio stellare.
“Beh? Che fai qui…?” Ermes, scontroso, ormai seduto, le ginocchia piegate, le braccia stancamente appoggiate al caduceo ritto tra le gambe, in una quasi iconica rappresentazione della fertilità a lui associata dagli antichi arcadi, accoglie la sorella con volto sconfitto. “Ti sei venuta a divertire, eh?”
“Niente affatto. Come vedi dal mio candido abbigliamento, son venuta per tessere le pleiadi, e magari, se la smettete coi vostri giochetti, avrò tempo e modo di terminare il gruppo. E comunque, caro Apollo”, continuò nello stesso bruciante tono di voce la pallade dall’azzurro occhio, “non è che, per una dea qual Afrodite è, sostituirsi a una semplice mortale sia cosa problematica, no?”
“Già!” Vomitò le parole Ermes. “Bella commedia… Tanto valeva rappresentarla nel teatro lì appresso, il luogo sarebbe stato più consono.”
Apollo annuì, sconsolato anch’egli.
“Date retta…” seguitò Atena, “lasciate perdere. Smettete di interferire, e vedrete che smetterà anche lei.”
“Sì, certo, come no?” Ermes ciondolava il capo, un ghigno beffardo stampato sul volto rabbuiato dallo smacco subito.
“Ma sì, che gusto ci proverebbe? In fondo, è un tipo sportivo anche lei, no? Basti pensare al suo Efesto…”
I tre si guardarono, poi abbassarono gli occhi.
Riprese Atena: “Coraggio, lasciamo che quei mortali si risolvano da soli i loro guai, e poi vedremo chi vincerà alla fine, no?” Ristette la gran dea pensierosa un lungo istante. “Idea!” Esclamò infine. “Perché non organizziamo un bel pranzo di nettare e ambrosia con tutti i nostri parenti? Eh? Dai. Magari sarà l’occasione per rimettere un po’ in riga certi aspetti del nostro vivere comune, no…?”
Ermes si sollevò in piedi, giocherellando con il caduceo. Osservò dal balcone d’Olimpo il prode Maris che, lasciata l’area del tempio e salito su una semplice biga trainata da due piccoli ma forti skyros, l’uno baio l’altro grigio, incurante del buio che si stava ormai diffondendo su tutta la Focide, si dirigeva, deciso, al lontano porto.
“Ehi… però, un momento…” Il postino si passò pollice e indice destro sotto il mento, meditabondo. “Si sta imbarcando… eh… certo… i parenti…”
“Embè?” Apollo, rimuginando su quanto appena successo, iniziava anch’egli a scaldarsi, man mano che una netta realizzazione gli si faceva lentamente strada fra le meningi. “A me… quella… Ehi! M’ha violato il tempio! E tu pensi alla nave del…”
Il sorriso smagliante di Ermes, che Apollo ben conosceva come segno inequivocabile di qualche furfantesca idea che gli si stesse formando in mente, interruppe il filo del pensiero al buon fratello, che divenne subitaneamente tutto orecchi per quel ladro ai cancelli.
“S’imbarca, capisci? S’imbarca…”
Apollo e Atena entrambi attesero la fine del ragionamento, anche se Atena, sbuffando, dimostrò di aver già capito.
“Bene, cari miei!” Si congedò borioso lo psicopompo. “Vado a trovare… mio zio!”
“Oh, buon Zeus!” Atena si mise il volto tra le mani, ciondolando il capo.
“No, mia cara… Zeus non è mio zio, è il padre mio. Vado dallo zio… Poseidone! Ah, ragazzi, a confronto il viaggio di quel rompiscatole d’Ulisse parrà una passeggiata!”


Cesare Bartoccioni, 27 dicembre 2016

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