Capitolo primo
IL CONIGLIO
“Ed ora,
signore e signori, sono lieto di annunciarvi che la vostra attesa è finita!”
L’imbonitore,
con la grande e glabra testa avvolta nel turbante dorato, la lunga veste di
seta grigia, gli stivaletti di cuoio fumé ricurvi in punta, osservò a uno a uno
gli astanti, i quali, come ipnotizzati dalle nere pupille dell’improbabile
sultano, erano passati dal chiassoso brusio di pochi istanti prima al più totale
e quasi religioso silenzio.
Dopo una
studiata pausa di alcuni secondi, il presentatore sollevò le braccia, quasi a
benedire il pubblico che per tutta la giornata si era affollato occupando tutte
le panche del Circo d’Oriente, assoluta novità, da mesi atteso, appena giunto
in città.
“Direttamente
dalle rive della Senna, dalla Villa di Parigi, dalle acculturate terre
d’oltralpe, è con sommo onore e grandioso piacere introdurre presso cotanta
assemblea quivi riunita colui che nelle corti di tutta Europa viene già
considerato, e a ragione, l’erede del grande Houdini!”
Raccolte
quindi le mani in grembo, chinato il capo in muto raccoglimento, il fantomatico
sultano attese altri cinque secondi netti, poi, allungando il braccio sinistro
verso il retro oscurato della pista, sollevò a mezzo la palpebra dell’occhio destro,
assicurandosi che tutti gli sguardi della cavea fossero diretti verso il punto
da lui appena indicato.
“Ecco a voi,”
riprese con la stessa monotona roca voce da basso asfittico con cui aveva
accolto il pubblico all’apertura dello spettacolo, “il Maestro Renatin Le
Chemin!”
Dall’ombra,
come un fantasma, si definì un’alta e lunga figura, in nero frac, bianca
camicia, papillon multicolore e leggiadre scarpette di vernice bordeaux con
fibbia dorata. I lunghi capelli argentati ricadevano sulle spalle come una
nuvola, la folta barba, argentea anch’essa, nascondeva metà del volto, e l’ombra
della tesa del cilindro oscurava l’altra metà. Se l’alto e nero cappello non
fosse bastato, di per sé, a fugare i dubbi sulla qualifica del suo indossatore,
la lunga cassa decorata con stelle, astri e mezzelune, e traforata qua e là da
sottili fessure orizzontali, che l’uomo si portava dietro su un cigolante
carrello a lignee ruote, ne definiva in modo preciso e inconfutabile la
professione. Ormai giunto alla luce del ronzante riflettore puntato al centro
dello spazio terroso, stava lì, in tutta la sua altera anche se annosa
eleganza, colui che, con le sue magie e i suoi strabilianti trucchi, aveva
incantato folle e corti di tutto il globo terracqueo.
Il pubblico
accolse il famoso prestigiatore con un sottomesso mormorio, che lasciò tosto il
posto a uno scrosciante applauso di fronte al profondo inchino in cui il
Maestro si profuse piegando il busto e il capo a novanta gradi precisi,
portandosi quindi la destra al cuore per muovere poi il braccio in un lento e floreale
arco verso il terreno, accennando perfino una genuflessione.
“Ed ora,”
riprese il sultano, “il Maestro si esibirà nel gioco di prestigio che più di
ogni altro gli è valso acclamazioni e apprezzamenti per ogni donde. Ma…” l’imbonitore
tornò a squadrare uno ed ognuno dei volti ormai rapiti dalla tanto attesa
apparizione, “per questo, abbiamo bisogno di una giovane volontaria. Chi ha il
coraggio di…”
“Io, io!”
Una voce squillante suonò dal centro della tribuna. Tutti si volsero verso la
giovane biondina che, nella foga di essere partecipe dello spettacolo, non
aveva neanche lasciato il tempo all’uomo col turbante di finir la frase. “Io!
Io!” E, senz’altro attendere, la formosa e longilinea fanciulla, scavalcata con
felina agilità la transenna che delimitava la pista, fu letteralmente d’un
balzo tra il Maestro e il Pascià.
“Bene… signorina…
la ringrazio.” La voce del Maestro suonò ovattata e bassa, come se provenisse
dalle viscere della terra. La folta peluria del volto non lasciava intravedere
bocca, e nulla parve muoversi sulla fissa maschera di ombra e argento che, in
lento movimento dall’alto in basso, della giovanetta squadrava linee e curve.
“Bene…”,
riprese la voce, “Bene… entri pure qui dentro.” Il Maestro indicò la cassa, che
dalla ragazza fu prontamente occupata, e il cui coperchio fu lestamente, dal
sultano, richiuso.
“Ed ora…” Il
Maestro volse l’ombra e la barba agli spettatori. “Ed ora… questa gentile
fanciulla, che con tanta fiducia si è offerta a noi, sarà, da me e dal mio
assistente… segata in due!”
Un “Oooohhh”
grave e prolungato si diffuse come un’onda per tutta la cavea.
Maestro e
sultano si misero subito, rapidi e frenetici, al lavoro. Estratti da sotto il
cassone acuminati strumenti d’ogni foggia e dimensione, senza complimenti li
infilarono in ogni pertugio disponibile, tra acute strida divertite provenienti
dall’interno del contenitore. Quindi, afferrata una grossa sega a due mani, i
due compari la posizionarono con precisione sulla metà della cassa e, tirando e
mandando, mandando e tirando, in quattro e quattr’otto la segarono, esattamente
in due.
Ansimanti e con
barba e turbante perlati di sudore, i due si volsero in profondo inchino al
pubblico in visibilio.
Solo uno, tra la plaudente folla, nella parte più in alta delle tribune, stava fisso e serio osservando lo spazio illuminato della pista. Con la sinistra si toccava la mantella di tweed, con la destra si rigirava un grosso sigaro spento tra le labbra. I suoi occhi erano socchiusi, il suo sguardo per nulla divertito.
Solo uno, tra la plaudente folla, nella parte più in alta delle tribune, stava fisso e serio osservando lo spazio illuminato della pista. Con la sinistra si toccava la mantella di tweed, con la destra si rigirava un grosso sigaro spento tra le labbra. I suoi occhi erano socchiusi, il suo sguardo per nulla divertito.
Il sultano,
con ampi gesti circolari, attirò l’attenzione degli spettatori sulla cassa, le
cui due parti vennero separate e ruotate sul carrello. Dentro, pareva esservi
scesa la notte più buia, nulla si discerneva, tranne le argentate lame che vi
erano state per tutta la lunghezza infilate. Le due metà furono quindi
ricomposte da Maestro e assistente, la cassa ribaltata su un fianco in modo da
offrire l’apertura, sigillata dal coperchio, direttamente alle tribune. Poi,
con un lento e ricercato movimento, Renatin Le Chemin posò la destra sul
pomello d’ottone che del coperchio costituiva serratura. Il Maestro attese due
secondi netti, quindi sollevò con rapidità il pannello.
Un’altra onda
di “Oooohhh”, stavolta acuta, si trasmise da un lato all’altro degli spalti. Alcuni
tra il pubblico si alzarono in piedi per ottenere precisa
conferma di ciò che i loro occhi avevano già registrato, ma che le loro menti
non avevano ancora creduto.
Dentro la
cassa, per tutta la sua lunghezza, il buio più totale. Niente più lame, niente
più ragazza. Solo, al centro del nero spazio, una piccola macchia bianca, che
tutti subito fissarono.
La macchia
iniziò a fremere, a ingrandirsi, a ingigantirsi, fino a rivelarsi, nel suo
candido velluto e nelle due lunghe orecchie che erano spuntate, un bellissimo
esemplare di Geant Blanc.
Cesare
Bartoccioni
14 aprile
2016
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