IL METODO
INDUTTIVO
di
Cesare Bartoccioni
racconto
“My name is
Gianni. What’s your name?”
“Adolfo”.
Guardai lo
studente negli occhi, ammiccando lievemente. Ripresi in tono accomodante.
“Look at
me.” Mi indicai la punta del naso con l’indice della mano destra. Poi ripetei,
scandendo le parole.
“My – name –
is – Gianni. – What’s – your – name?”
Lo studente
ci pensò su un attimo.
“My name is
Adolfo.”
“Very well,
Adolfo. I’m forty-seven. How old are you?”
“Undici”.
Ripetei la
scenetta di poco prima.
“I’m –
forty-seven. – How – old – are – you?”
“I’m… undici”.
“I’m –
forty-seven. Forty-seven.”
“I’m…
eleven.”
“Perfect,
Adolfo, very good!”
La
campanella interruppe la lezione. Salutai gli studenti della I A.
“Bye, boys
and girls! See you next week!”
“Bye”,
risposero all’unisono. Qualcuno pure con un ridente “Bye, teacher!”
Appena fuori
dall’aula mi trovai di fronte la collaboratrice scolastica, come se mi stesse
aspettando.
“Deve andare
in Presidenza, Professore. Subito. Le tengo io la III B finché non torna.”
In effetti,
mi stava aspettando.
Anche in
Presidenza, evidentemente, mi stavano aspettando, ma con meno abnegazione,
all’apparenza, della collaboratrice.
Attesi
venticinque minuti davanti alla porta dell’ufficio del Dirigente Scolastico.
Misi mentalmente una croce sulla lezione che avrei dovuto tenere nel frattempo
in III B.
“Entri pure,
Professore!”
La voce da
basso aveva un tono perentorio. Nessuno mi aveva annunciato, ma chiaramente, lì
dentro, erano sicuri che mi sarei subito presentato.
“Si
accomodi, si accomodi pure.” Il cenno di invito verso una poltroncina in
similpelle beige senza braccioli posta perfettamente in linea con il bordo
della scrivania della Presidenza non aveva nulla di invitante. Il Preside era
rimasto seduto, la schiena poggiata allo schienale della sua scranna in cuoio
marrone scuro.
“Mi scuso se
l’ho fatta attendere.” Il tono delle scuse faceva il paio con il cenno di
invito di poc’anzi. “Ero al telefono con un genitore. Uno dei suoi.”
“Dei miei?
Mia madre?”
“Non faccia
lo spiritoso. Non è il caso, guardi, non è proprio il caso. Uno dei suoi
alunni.”
“Ah.”
“Ah?”
“Eh.. ah.
Beh?”
“ ‘Beh’, se
permette, lo dico io, caro Professore, lo dico io.”
Mi mossi
incomodo sulla mia seggiola, cercando di non scivolare a terra, data la ridotta
area della seduta.
“Mi perdoni,
Preside, ma non capisco. È successo qualcosa?”
“Se è
successo qualcosa, mi chiede? E perché mai crede che l’abbia convocata, qui,
durante le sue lezioni, eh?”
“Eh, non lo
so. Ma mi dica pure.”
Il Preside
si alzò, mi voltò le spalle incrociando le mani dietro la schiena. Si mise come
in contemplazione del paesaggio al di fuori della finestra che si apriva dietro
lo scrittoio. Indugiò sul panorama, in modo tanto palese quanto improbabile,
dato che l’unico elemento visibile dalla vetrata era la monotona chioma di un
tiglio.
Seguì un
lungo incomodo silenzio; stavo per iniziare a parlare quando il vocione
dirigenziale interruppe il movimento in apertura delle mie labbra.
“C’è poco da
dire, caro il mio Professore. Poco da dire.” Voltò il capo di tre quarti, lo
sguardo puntato in basso, le palpebre semichiuse e supponenti, come a
sottolineare che non mi avrebbe neanche degnato di fissarmi negli occhi.
“Deve
smetterla, Professore. Smetterla.”
“Smetterla?
In che senso? Smetterla con che?”
“Con il suo
metodo.”
“Il mio
metodo? Intende il metodo di insegnamento?”
Il Preside
si girò completamente, fissandomi dall’alto verso il basso, le mani ora a me
invisibili, ma ovviamente sempre incrociate dietro la schiena. Sbuffò.
“E di che
altro sennò? Degli ulteriori metodi a cui lei potrebbe esser uso nella sua vita
privata, a me, sinceramente, non potrebbe infischiar di meno.”
Cercai di
rizzarmi sullo schienale per darmi un po’ di contegno, ma mi accorsi che era
traballante. Tornai quindi alla mia posizione di precario equilibrio sulla
parte anteriore della poltroncina. Posizione alquanto problematica da cui far
fronte a discussioni del genere. Dovevo comunque ribattere. La situazione aveva
dell’assurdo.
“Signor
Preside, ma cos’avrebbe il mio metodo che non va? È dai tempi di Socrate che si
utilizza, anche se qualcuno ritiene di averlo scoperto di recente… I ragazzi apprendono,
mi pare. Il metodo è efficace, o no?”
“Efficace?
Efficace? È proprio questo il punto, caro mio. Il problema, caro il mio Professore,
è che il suo metodo è troppo, ripeto, troppo, efficace!”
“Troppo
efficace? Ma in che senso?”
Il Preside tornò
a rimirare il tiglio.
“Sa cosa mi
ha detto la mamma che avevo al telefono poco fa? Lo sa?”
Rimasi in
attesa.
“Allora, lo
sa?”
Non era una
domanda retorica.
“No. Come
potrei…?”
“Mi ha
detto…” Il Dirigente Scolastico tornò a fissarmi. “Mi ha detto che ieri sera ha
chiesto a suo figlio cosa volesse per cena. E suo figlio non le ha risposto.”
Rimasi un
momento interdetto.
“E quindi?
Cosa c’entro io?”
“C’entra,
c’entra… c’entra eccome! Vede, Professore,” riprese poi con una modulazione della
voce più conciliante, benché non meno preoccupante, “da quando lei insegna in
quella classe, suo figlio non le risponde più.” Avvicinò quindi il volto al mio.
La mentina che aveva chiaramente ingerito poco prima del colloquio, purtroppo,
non aveva avuto alcun effetto. Forse era della stessa marca del deodorante. “Anzi…
per dir meglio, caro Professore… da quando lei insegna in questa scuola nessuno
risponde più a nessuno.”
Trassi un
profondo respiro.
“Mi scusi,
Preside, ma cos’è, questo, un indovinello?”
Il mio
interlocutore spalancò le palpebre, mostrando le palle degli occhi in un
atteggiamento malinconico, quasi da cane bastonato. La vociona tesa al falsetto
completava la pantomima.
“No. No. Non
è un indovinello. Professore, caro Professore… I suoi alunni, da quando c’è qui
lei, imparano l’inglese.”
“Beh, sarei
qui per quello, no?”
“Ma si
scordano la loro lingua madre, caro Professore. Capit’? Se la scordano. L’altro
giorno un’altra mamma mi ha telefonato, lamentandosi del fatto che è dovuta
andare a fare un corso serale di inglese per poter parlare con la figlia. Ma si
rende conto? Ma cos’è che fa nelle sue lezioni, eh?”
“Guardi,
Preside, faccio solo ciò che devo. Venga pure in classe, così vede di persona.”
Il Preside
alzò le braccia con i palmi delle mani aperti, come ad arrendersi.
“Ah, me ne
guardo bene, me ne guardo! A me la mia lingua madre serve. Dio mi scampi!”
“Ma veda un
po’, Preside. Andiamo. Non faccio nulla di strano, sto solo applicando…”
“Lasci
perdere. Per pietà, lasci perdere. Lasci perdere Socrate, Aristotele, Pericle e
tutto l’ambaradan. Si conformi. Torni ai sistemi già sperimentati e sedimentati.
I am, you are, he… he…”
“is”.
“Ecco,
bravo.”
“Grazie.
Comunque Pericle non c’entra niente.”
“Le dico io
cosa c’entra, Professore. C’entra che non ne posso più di ricevere telefonate
dai genitori dei suoi alunni. Per non parlare dei colleghi.”
“Colleghi?”
“Sì,
colleghi, colleghi. Sa cosa sono i colleghi, no?”
“Beh, sì,
certo, ma…”
“Ma! Ma! Ma
come pensa che uno possa insegnare la propria materia a chi non capisce più la lingua
comune? Per non parlare degli alunni extra mondo nei percorsi di alfabetizzazione!
Lì ha creato un vero caos!”
“Beh,
Preside, non so che dire. Ho sempre
insegnato così.”
Il Dirigente
mi poggiò la mano destra sulla spalla sinistra. Il tono scese a un colore confidenziale.
“Ecco. Ed è
per questo che io, a partire da questo stesso istante, in base alla legge sul
Congedo Diretto introdotto nel recente DPdCM, meglio conosciuto come ‘Retta
Scuola’, nevvero, caro Professore, la invito a raccogliere in giornata i suoi
effetti personali dall’aula insegnanti e a non farsi più vedere in questa
colonia. Può andare.”
Il Preside
si rimise in osservazione del tiglio.
Non v’era
altro che si potesse aggiungere.
Mi sollevai
dalla seduta, non senza un certo sollievo per il mio fondoschiena. Uscii dall’ufficio
e diedi un’occhiata al quadrante del mio orologio da polso. Le undici e trenta.
Nell’aula insegnanti non avevo altri effetti personali oltre al romanzo ‘I due
titani’ di Bertu… Burto… Bartu… mah, non riuscivo mai a ricordare il nome
corretto di quell’autore. Ad ogni modo, avrei
potuto terminarne la lettura durante il lungo viaggio di ritorno verso casa. La prossima
astronave per la Terra sarebbe decollata tra un’ora tonda tonda. Avrei avuto
tutto il tempo.
Cesare
Bartoccioni
24/25
novembre 2018
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