I due titani - capitolo dodicesimo: Il ritorno



Capitolo dodicesimo
IL RITORNO

Maris d’Atene di stracci vestito, qual pescatore che torna al mattino, con umil sacca di tela strappata solo s’en va a tale grotta fatata che gli abitanti di quel nuovo mondo gli han detto luogo dell’essere immondo.
Lungo il cammino lo ferma quell’uomo, che già negli inferi l’avea diretto, saluta freddo e gli dice: “Ho qui un dono”, poi lo saluta e gli lascia un falcetto.

“Ma chi…? Ma non è Ermes, quello? Eh? Eh, Atena? Non è Ermes?” Ares, disorientato, indica con dito frenetico l’uomo in cui, palesemente, il postino d’Olimpo s’è appena incarnato.
“Certo. Te ne stupisci?” Atena solleva leggermente gli occhi dalla Chiave di volta della costellazione d’Ercole, appena iniziata, e con un lampo di sbieco fulmina il fratello. “Ah, già… evidentemente, al tempo, non gli hai letto le labbra, eh? Ricordi? Niente duello, niente Afrodite. Era così, più o meno, no?”
“Ah, già…” Ares accenna affermativamente in un profluvio di ampli movimenti del capo. “Certo, capisco!” Era lampante che non ci stava capendo niente.

Maris ringrazia e saluta il vegliardo, ch’è già lontano con passo gagliardo, e col falcetto si fa contadino, anche se invero esso è adamantino. Giunto all’ingresso dell’antro pauroso, penetra dentro pur se un po’ dubbioso, pronta la manca nel sacco di sale, stringe la destra sull’elsa rurale.
Ivi la luce si batte con l’ombra, e v’è l’orrore che tutto lì ingombra: ossa biancastre d’ogni dimensione, resti rimasti di chi eran persone. Nel buio pesto che avvolge l’ambiente non v’e più suono non v’è alcun rumore, vibrano i nervi e si snerva la mente quando l’orror lascia campo al terrore.
Cammina Maris con passo felpato e benché al freddo il suo corpo è sudato, continua al buio nel nero silenzio poi di gran lungi gli giunge un lamento.

“E ora, mio campione, dipenderà tutto dalla tua sensibilità.” Afrodite, sul balcone d’Olimpo, abbassa lo sguardo e si raccoglie in silenzio, quasi in orazione.

Fa la caverna un budello ristretto, dove cammina Maris circospetto, e giù nel fondo una luce si scorge donde del pianto par esservi fonte. S’apre ‘l cunicolo in ampia caverna, spoglia di tutto e del tutto deserta, ma nel suo centro su un letto di pietra, v’è incatenata una giovine inquieta.
Solleva il volto la bella ragazza, biondi i capelli e carminie le labbra, occhi cerulei velati di pianto, dolce l’aspetto nello sguardo affranto.
Tutto nel bel delicato sembiante ricorda all’uomo dei sogni d’un tempo, ei s’avvicina con far titubante, la pelle candida freme un momento. Non v’è apertura donde entri lì il sole, par che risplenda soltanto l’umore della fanciulla che, sacrificata, dal gran dolore par pietrificata.
Maris sorride, di sotto i suoi baffi, tiene la schiena alla nera parete, scivola a dritta d’un paio di passi, decide il gioco d’andar a vedere.
Lesto di manco dà fondo alla sacca, e una manciata ben piena di sale lancia precisa su quella ragazza che d’improvviso comincia ad urlare.
Non son più biondi ma crini di serpi, gli occhi son rossi e son zanne i suoi denti, or le sue gambe son coda d’un aspide, viscide membra son ora le natiche. Con lunghe braccia verdastre d’artiglio tenta la maga dar tosto di piglio, ma ‘l bianco sale com’è tradizione ha già sconfitto la maledizione: resta attaccata al suo stesso tranello e quel giaciglio ch’era trabocchetto ove bei giovani attratti nel letto avean trovato sol rabbia e dispetto, or le si muta in sepolcro tombale in cui s’estingue ‘l suo odio e ‘l suo male.
Maris solleva su in alto il falcetto e due manciate di sale marino getta di nuovo sull’orrido aspetto mentre guardingo si fa più vicino. Vibra la Lamia d’un fremito atroce, lungo le lucide membra viscose, e le sue tetre contorte fattezze sembrano vermi di mille grandezze.
Si ferma Maris a osservare un momento, par che cogli occhi l’ormai vinta strega grazia clemenza e perdono gli chieda; Maris le cala il falcetto oltre ‘l mento, rotola il capo staccato dal busto e si rivela il suo corpo vetusto or che l’incanto le è stato reciso dal netto colpo tagliente e preciso.

Il sospiro di sollievo di Afrodite diffonde un dolce e fresco sentore per  l’intero Olimpo.

Vincente torna dal popol di Tera, e quella testa che fu della fiera alta solleva mostrandola a tutti, poi senza motto la getta nei flutti. Ribolle il mare e quel capo scompare, grata l’offerta par al dio del mare, che le gran acque si fanno sì calme come a invitar il buon uomo a salparle.
“Grazie, valente mio buon generale.” Non più mestizia nel volto gioviale, della ragazza che l’avea salvato, e che all’impresa l’avea indirizzato, ma d’allegrezza tutta illuminata, “La gente tutta”, gli dice, “t’è grata, ed un naviglio per te è riservato, che ti riporti nel luogo a te caro. Or Poseidone ti sei fatto amico: nulla potrà più cambiarti il destino.”



Cesare Bartoccioni, 17/18 luglio 2017

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