Il prestigiatore - capitolo settimo: L'odalisca


Capitolo settimo

L’ODALISCA


La risonanza simpatica permeava il tempo e lo spazio, l’ambiente nel buio della notte era rischiarato da un solo braciere posto a dieci passi dall’apertura della tenda, sulla sinistra. Dalla parte opposta, gli occhi cerulei del suonatore di sitar, i cui capelli dal tono di paglia scendevano dal fez color del corniolo, rilucevano come stelle azzurre nel rosso riverbero dei carboni accesi.
Al suono melodico delle corde degli dei, l’armonica figura al centro di un tappeto d’arazzi attrasse, dell’uomo dalla mantella, lo sguardo i sensi e l’attenzione.
Il volto ovale era nascosto da un impalpabile velo grigio perla, e di perle una coroncina cingeva i capelli neri attorcigliati in una lunga treccia che scendeva sulle spalle. La pelle olivastra, nella cornice perlata, enfatizzava il giada delle grandi iridi, che nella sinuosa danza ondeggiavano seguendo i fluidi movimenti delle lisce braccia e delle nude gambe, e quei lembi celestiali, nel loro moto, segnavano ogni singola nota di un divino valore.
Il verde taglio degli occhi a mandorla brillava di mare e di cielo, trasformando intorno a sé e per tutto l’interno del padiglione il fosco chiarore della brace in splendente iridescenza che illuminava lo spirito e il cuore. All’uomo dalla mantella parve che quella tenda fosse tutto il mondo, e che nulla vi fosse di realmente importante al di fuori di essa.
“Quella è la figlia del fachiro.” La  fredda voce della donna serpente lo richiamò alla realtà della sua missione… della sua ‘perdizione’, come aveva detto l’asceta. Perdizione dalla quale, si accorse con una punta di malinconia, si era quasi liberato semplicemente posando lo sguardo sulla giovane danzatrice, che lì, sui tappeti, pareva librarsi in angelico volo. Il leggiadro movimento delle gambe regalava alle anche un’oscillazione che era al contempo invitante e casta, e il grembo virginale trasmetteva la naturale vibrazione su fino al ben proporzionato e armonioso seno pudicamente stretto in un nero corpetto, e che del bel corpo completava le perfette simmetrie. Il corpo tutto, le braccia, le gambe, il moto del capo, gli sguardi di giada, ruotavano musicalmente intorno al punto saliente di quel quadro paradisiaco.
L’ombelico dell’odalisca, nella delicata fossetta leggermente svasata verso il basso, era stato sicuramente disegnato, non poteva essere altrimenti, dal dito stesso d’Afrodite, in unico magnifico incantevole tocco.
“Magari ti potrà dire dove si trova la tua Stella, così potremo andarcene di qui.”
Fredda la voce, freddo il tono, la donna serpente, per la seconda volta, dissipò la magia incantatrice che era entrata e penetrata nell’anima dell’uomo, con la luce salvifica del colore dello sguardo e col conforto del calore della danza.
Il suonatore aveva già da tempo smesso di pizzicare le corde, ma la loro vibrazione, amplificata dalla cassa di zucca, seguiva nell’armonia degli ultimi aggraziati gesti che la danza concludevano.
Ma come il gallo che cantò tre volte, rivelando il rinnegato Simon Pietro, tre volte rivelò la donna serpente l’astio l’odio e l’invidia, inconsci motivi che, forse, l’avevano indotta a offrirsi in aiuto all’uomo con la Webley.
“È l’unica tra noi che il sultano non ha mai toccato…” la voce era priva di espressione, ma si sentiva, nel profondo, una fredda malevolenza, “Non so se per paura del padre, o per rispettare il suo ruolo… pare che queste danzatrici non possano mai giacere…”
L’uomo interruppe la gelida giaculatoria sollevando di scatto la mano destra, col palmo aperto a due spanne dal volto pustoloso della viscida ofiuca. Per la terza volta, la donna serpente aveva distrutto la magia, che l’odalisca sembrava naturalmente effondere semplicemente con la sua presenza per tutto l’intorno della sua esistenza. Magia vera, quella, non i patetici trucchi di Renatin. Oltre a ciò, l’uomo, di odalische, ne aveva conosciute tante, nella sua gioventù su e giù per il Punjab, e non aveva bisogno di lezioni in materia. Tante, sì. Ma nessuna come la figlia del fachiro. Ella era evidentemente speciale. Ella era chiaramente preziosa.
Aveva desiderato, un tempo, poter tornare nelle terre della sua infanzia. E c’era rimasto male quando Kitchener glielo aveva impedito. Ma, pensò ora, alla fine il Punjab era tornato da lui, nel modo più impensato e impensabile, mentre era impegnato nella ricerca, nel recupero, nel riscatto, della più pura tra le pure.
Il sitar era stato appoggiato al suolo, dove le sue armoniche continuavano a vibrare, spegnendosi lentamente in sublimi iperboli decrescenti. Il suonatore si avvicinò alla donna serpente, e toccandola sulla spalla le fece cenno col capo di seguirlo fuori della tenda. L’ofiuca obbedì, come incantata dai celesti occhi del musicista. L’odalisca aveva smesso di danzare, e ora si stava avvicinando all’uomo dalla mantella, camminando con passo deciso e fluido, nella perfetta armonia delle forme del corpo e del suo movimento.
Da dietro l’odalisca, una piccola e allungata forma di un colore tra il rame e il mogano sbucò dal fondo della tenda, e si diresse verso i due, che ora si trovavano a meno di un metro di distanza, l’uno di fronte all’altra. La forma, a metà strada, si fermò, improvvisa. L’uomo dalla mantella, nel naso che, curioso, puntava ora lui, ora la ragazza, nell’espressione stupita degli occhioni neri, e soprattutto nella coda che, dapprima scodinzolante, si era fermata subitanea e in verticale come a valutare l’imprevista scena che si stava svolgendo in quello che palesemente era il suo incontrastato territorio, riconobbe un elegante e ben curato esemplare di cane da tasso.
L’odalisca lo guardò con sguardo tenero e premuroso.
“Beh? Dai… torna sotto la siepe, Barakuta.”
L’uomo rimase incantato dalla voce della ragazza. Calda, decisa, ferma, piacevole. Riconobbe qualcosa del tono del fachiro. Qualcosa di speciale, di fatato.
Il cane, abbassando rapido il muso come in un cenno affermativo, fece rapidamente dietro front, e rapidamente scomparve sotto il lembo della parte posteriore della tenda.
L’odalisca osservò il suo piccolo tesoro che se ne tornava da dove era venuto, quindi riportò la verde luce sull’uomo dalla mantella.
“Sei arrivato, infine.”
L’uomo restò interdetto.
“Mi… attendevi?”
Il velo impediva all’uomo di vedere altro, nel volto della ragazza, oltre agli occhi, ma dal loro tenue socchiudersi capì che l’odalisca stava sorridendo.
“Beh…” riprese lei nella stessa voce ben definita e gradevole che perfettamente si abbinava all’assoluta armonia delle sue forme, “pensavamo che qualcuno, prima o poi, sarebbe giunto, per reclamare la sua Stella. Anche se, onestamente, mi aspettavo un arrivo un po’ più… sommesso, data la posta in gioco…”
L’uomo abbassò il capo, come un penitente. I volti del baro, della donna cannone, del lanciatore di coltelli, del mangiafuoco… gli mulinarono di fronte agli occhi.
“Già… eh… è che… forse mi sono fatto prendere un po’ troppo la mano…”
“Forse?” Gli occhi della ragazza si socchiusero ancora di un millimetro. “Direi che ti sei vagamente dimenticato degli antichi insegnamenti.”
L’uomo trasalì. Guardò fisso la verde luce nelle iridi dell’odalisca.
“Ma come sai…?”
La ragazza lo interruppe sollevando la destra con il palmo aperto. Quindi fece scendere la mano fino a prendere la sinistra dell’uomo, e il contatto vellutato gli trasmise un brivido di abbandono per tutto il corpo. L’uomo dalla mantella si sentì, all'istante, in assoluta pace con se stesso, con i suoi simili, con il cosmo. Una sensazione che non provava da tanti, tanti anni. Da quando Vincent gli era morto tra le braccia, con un rivolo di sangue al lato della bocca e quattro pallottole di semiautomatica nel petto.
L’odalisca lo trasse a sé, quindi verso il centro della tenda, invitandolo, quasi spingendolo, a sedersi sui tappeti, fino a ritrovarsi entrambi accovacciati, a gambe incrociate, le braccia distese, nella posizione del fiore di loto.
“Ora ascoltami.” La voce della ragazza, sempre calda, aveva acquisito una tonalità di particolare, intensa commozione. “Ti racconto una storia.”


Cesare Bartoccioni, 21 maggio 2016

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