Il prestigiatore - capitolo quinto: La donna serpente


Capitolo quinto
LA DONNA SERPENTE

Vincent era morto. Il petto trapassato da quattro pallottole calibro 7,63 sparate a bruciapelo dalla spia tedesca su cui avevano quasi messo le mani, e che ora se ne cavalcava via, già troppo distante per poterla raggiungere, via con i suoi documenti, le sue carte, i suoi segreti.
Ora Vincent era lì, a terra, tra le sue mani, in un lago di sangue.
L’uomo non riuscì a trattenere le lacrime. Vincent, nei mesi di incursioni dietro le linee nemiche, era diventato come un fratello. Più di un fratello. Non aveva mai commesso errori. Fino a quel momento. Un unico errore. Pagato con quattro fori mortali.
Il caldo torrido che saliva tremolante dal terreno, e che confondeva in lontananza la spia e il suo sauro con la vegetazione ocra bruciata dal sole che implacabile aveva battuto senza pietà fin dalla mattina quella giornata di morte, si fece all’improvviso freddo e umido, e una gelida sferzata in faccia tolse il fiato all’uomo.
L’uomo scosse il capo, provò a muoversi, ma gli risultò impossibile. Era legato mani e piedi a una vecchia sedia di legno annerito dal tempo e tarlato dall’incuria. Nel dissolversi della nebbia che gli offuscava la vista andarono definendosi tre figure, in piedi di fronte a lui. Figure che conosceva bene. Il sultano, al centro, si rigirava la Webley in mano. Il prestigiatore, sulla destra, stava eretto e immobile, nell’ombra della tesa del cilindro e nella barba argentata e informe. Sulla sinistra, la biondina salita la sera sul palco per farsi segare aveva uno sguardo contento e fiero, e in grembo, a due mani, stringeva un voluminoso manufatto, su cui l’uomo cercò di concentrarsi. Era certamente quello, pensò, l’oggetto contundente con cui lo aveva spedito a nanna.
La sensazione di gelo continuava a comunicarglisi per tutto il capo, per le spalle e per il torace. Era bagnato. Acqua ghiacciata, si rese conto. Era così, dunque, che lo avevano tratto dal sogno. Il sogno di Vincent. Il vecchio incubo che, puntuale, tornava a tormentarlo in ogni sua notte.
Gli occhi, poco a poco, risvegliati dagli antichi fantasmi, ricominciarono a mettere a fuoco persone e oggetti. Non si trovava più nella cucina, ma in un buio stanzino, che però non doveva trovarsi troppo distante dalle carni sfatte e dai fetori vomitevoli, a giudicare dal dolciastro sentore di decomposizione che permeava anche quell’ambiente. Un solo lucernaio, appena sotto il soffitto, alle spalle degli spettatori a cui egli stava offrendo un sicuramente gradevole quanto gramo spettacolo, permetteva un tenue ricambio di ossigeno e un’asfittica sopravvivenza a chi si trovasse in quel vano oscuro.
Tornò a concentrarsi su ciò che la ragazza aveva in mano.
L’oggetto voluminoso era, in effetti, un vero e proprio volume. L’uomo strinse gli occhi per mettere a fuoco la scritta dorata sulla rigida copertina scarlatta. “Manuale di Diritto Canonico”, v’era riportato, e al di sotto si specificava trattarsi della nuovissima edizione riveduta e corretta dall’Abate Pierre.
Come potesse tale letteratura trovarsi tra quegli equestri coi cammelli, era un mistero quasi tanto inspiegabile quanto la sparizione delle trenta ragazze negli ultimi due anni.
“Che ferraglia.” La voce da basso asfittico del sultano accompagnò con tono pietoso il ciondolio esageratamente mesto della sua testa, ancora cinta dal turbante della serata. “Io ho sempre preferito la Mauser.”
Il prestigiatore, cilindro tesa ombra e barba, fece col capo un cenno di conferma.
“Certa gente non riesce proprio a stare al passo col progresso, eh, Renatin?” Il sultano sollevò la Webley all’altezza degli occhi, come a valutarla meglio alla fioca luce che entrava dal piccolo abbaino alle sue spalle. Renatin Le Chemin confermò con un altro cenno.
Il sultano, infine, puntò gli occhi aperti a metà sull’uomo legato alla sedia.
“Allora, vuoi infine dirci chi sei e perché sei qui?”
“L’ho già detto. Sono venuto a riprendermi mia moglie.” L’uomo, sulla parola moglie, indicò con gli occhi la biondina alla destra del sultano. Si era già trovato, in passato, più volte, in situazioni simili, e anche peggiori, e ogni volta sapeva che era importante prendere tempo. La cosa migliore da fare in quel momento, considerò, era continuare nella pantomima improvvisata al tempo del baro.
“Giuro, giuro, giuro,” cantò la sonora voce della ragazza, “che io non lo conosco, non l’ho mai visto, sono pronta a metterlo per iscritto!”
Il sultano rassicurò la biondina con una pacca affettuosa sulla spalla sinistra.
“Stai tranquilla.” Quindi batté con l’indice sulla copertina del tomo. “Se anche fosse, hai appena divorziato. Sono sicuro che l’Abate Pierre, lì dentro, ha dedicato almeno un capitolo intero all’annullamento del matrimonio.”
La biondina aprì la bocca per replicare, o per ribadire, o per dissociarsi, o per stigmatizzare. Nessuno poté dirlo, perché il sultano, alzando la mano destra in un gesto imperioso, la interruppe autoritario.
“Non ha importanza.” Avanzò verso l’uomo, poi allungò la Webley verso la sua sinistra. Una mano grassa e unta l’afferrò. L’uomo si volse. Si rese conto solo in quel momento che, accanto a lui, seduto su un grosso sgabello, le ginocchia fasciate da poco con bende sanguinolente, si ergeva la possente figura del mangiafuoco. La luce che gli brillava nei neri occhi era l’assoluta quintessenza della vendetta.
“Il nostro amico, qui,” continuò il sultano con voce roca, “lo farà cantare. Il resto… non è un problema mio.”
Si volse, quindi, il sultano, verso la biondina e Renatin.
“Andiamo, ora. Ritiriamoci nel mio carro. Dobbiamo valutare quale ruolo si confà meglio al nostro nuovo acquisto.”
I tre uscirono dallo stanzino tirando una lunga anta dalla parete sulla sinistra. L’uomo con la mantella, prima che lo sportello si richiudesse alle spalle del terzetto, fece in tempo a vedere oltre il passaggio il bagliore del grasso giallognolo che traboccava dal pentolone della cucina. Non era stato il fumo, quindi, a ingannarlo sulle dimensioni di quella fucina infernale. C’era una stanza segreta. E lui l’aveva trovata… da prigioniero.
“Bene… bene… bene…” Il vocione del mangiafuoco lo richiamò alla situazione dell’imminente pericolo che, ora, pareva ineludibile. La luce proveniente dall’abbaino sembrò oscurarsi per un fugace istante, come un presagio del buio eterno che, tra poco, l’avrebbe sicuramente avviluppato.
“Stai tranquillo, mantellina di tweed… Mi dirai tutto. Conosco un metodo infallibile.” Il mangiafuoco fece una minacciosa pausa. “Me l’hai insegnato tu.” Armeggiò quindi, con le sue manacce, intorno al calcio del revolver. “Ma voglio essere generoso… ti lascio la scelta… quale ginocchio vuoi che ti faccia saltare per primo?”
“Fai come ti pare. Ma ti consiglio di puntare bene l’arma… a giudicare da come la maneggi, rischi di bruciarti la barba.”
Il mangiafuoco rimase un istante interdetto. Quindi scoppiò in una sonora risata, che non riuscì né a trattenere né a fermare. Continuò a ridere a scoppi ruvidi e catarrosi, con una grossolana giovialità che iniziò a contagiare anche l’uomo dalla mantella, nonostante la sua condizione.
La risata sarebbe potuta continuare all’infinito, ma s’interruppe all’improvviso in un rantolo. L’uomo dalla mantella sollevò lo sguardo verso il volto del mangiafuoco, e si accorse che qualcosa gli si stava avvolgendo al collo, muovendosi in spire dorate segnate da neri reticoli. Il mangiafuoco lasciò cadere la Webley al suolo, e con le mani afferrò quel grosso, lucido e viscido foulard cercando di strapparselo di dosso. Ma il foulard non ne voleva sapere di sciogliersi. Il mangiafuoco cadde all’indietro, crollando al suolo per la seconda volta in quella sera. E stavolta fu l’ultima. Sul capo appuntito e pelato, l’uomo con la mantella scorse due forme che si allungavano a triangolo, e al vertice un giallo occhio con la pupilla a fessura. Erano fauci. Era un pitone.
L’anta dello stanzino segreto scattò, e una figura fasciata da un’attillata veste di seta nera entrò. I capelli neri e lunghi ricadevano mossi sulle delicate spalle, gli occhi castano scuro erano ridenti, le labbra sottili si aprivano in un lieve triste sorriso. Le guance delicate, segnate da una leggera acne cremisi, ne testimoniavano la giovane età. La figura si avvicinò al mangiafuoco, già soffocato, il pitone aveva già fagocitato l’intero capo, e le sue fauci si stavano già dedicando alle spalle. Era un gigantesco esemplare di Malayophyton reticulatus.
“Non gli farai più alcun male, aguzzino.”
L’uomo ebbe la sensazione che la ragazza non stesse riferendosi a lui.
La giovane si chinò sulla sedia, e iniziò a liberare l’uomo dai legacci. Il pitone era già giunto alla vita del mangiafuoco. Quel pasto gli sarebbe bastato per almeno due mesi…
“Suppongo di doverti ringraziare… Chi sei?”
“Supponi bene.” La voce era piatta, ma dolce. “Sono la donna serpente.”


Cesare Bartoccioni
29 aprile 2016

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