26 X 1881 - racconto


26 X 1881
racconto

di Cesare Bartoccioni


Il colpo di tosse mi venne secco e aspro, ma ormai mi ci ero abituato.
Mi passai il dorso della sinistra sulle labbra. Scostandomelo dalla bocca, fissai la macchia densa e scura rimasta sulla fossa radiale. Ma non era tabacco. Anche a quello, ad ogni modo, mi ero abituato.
Ripulii la mano strofinandomela sulla giacca. Non era importante. Non sarebbe durata molto, probabilmente. Importante, invece, era non perdere la presa dell’arnese che tenevo, con la destra, sotto il lembo del soprabito.
“Dovresti farti vedere.”
Sollevai lo sguardo verso il mio amico. Gli occhi erano invisibili, nell’ombra della tesa, ma sentivo le sue pupille puntate dritte sulle mie.
Ricambiai il suo tono preoccupato con un sorriso.
“Mi vedo da me.”
Non c’era tempo di discutere oltre. Ci aspettavano. Erano già in fila, di fronte a noi.
Camminammo a lenti passi lungo la polverosa Fremont Street. Ci fermammo, tutti insieme, a poca distanza dallo studio fotografico di Fly. L’aria era tersa e immobile. Era come se Eolo fosse in attesa di una tempesta. Sarebbe stato un uragano, invece. E non l’avrebbe portato il vento, stavolta.
Erano armati. Bastardo d’uno sceriffo. Ci aveva mentito.
C’è chi dice che qualcuno gridò un ordine. C’è chi dice che qualcuno si mise a strillare.
Sinceramente, non lo so. E francamente, me ne infischio.
Non so chi fu a cominciare. Due furono i primi colpi, esplosi praticamente all’unisono. Uno verso il mio amico, che venne mancato. Uno tirato dal mio amico, che non ne mancava mai uno. Lo stomaco del suo bersaglio si mise a sanguinare. Il fumo delle polveri offuscò subito le poche iarde che ci separavano. A quel punto, iniziarono tutti a far fuoco.
Io vidi il cavallo impennarsi. Vidi quel pezzo di sterco cercare di aggrapparvisi. Non lo avrei mai permesso. Feci un giro oltre la sua cavalcatura. Liberai il ferrovecchio della diligenza dalla falda del cappotto e gli sparai a bruciapelo, in petto, tirando entrambi i grilletti. Lo vidi cadere ai piedi del palo del telegrafo. Bravo figlio d’un cane. Forza. Manda un messaggio a Belzebù, avvisalo del tuo arrivo.
Gettai la doppietta, ormai scarica, misi mano alla mia .38 e mi diedi anch’io alle danze.
Quello che aveva giurato di ammazzarci tutti se ne scappò via come un coniglio. Insieme a un suo degno compare.
Un altro riuscì ad afferrare le redini del suo ronzino, e fuggendo mandò un po’ di piombo dalle mie parti, colpendomi alla fondina. Mi guardai in basso. Solo un graffio. Gli ricambiai la cortesia, e feci in tempo a vederlo cadere e mordere la polvere.
Uno dei nostri venne bucato alla schiena, e ci mise un minuto buono per rialzarsi. Un altro al polpaccio. Ma non sembrava nulla di grave, nessuno dei due, tanto che li vidi risollevarsi, armi in pugno, e riprendere il concerto.
Il mio amico, in piedi in mezzo a quel caos, con le pallottole che gli fischiavano intorno senza nemmeno sfiorarlo, pareva un angelo vendicatore disceso in terra nel giorno del giudizio universale, circondato da demoni che nulla potevano contro di lui. Ruotava il busto poggiando il peso ora sulla gamba destra, ora sulla sinistra. Il fumo che usciva dalla canna della sua .44 era come un sacro incenso che allontanasse il maligno.
Uno spettacolo.
Io sparavo e tossivo, vomitando sangue e piombo. Se proprio dovevo sputare l’anima, quello sarebbe stato un bel giorno.
Il mio amico aveva intanto finito le pallottole, e io pure.
Ebbi il tempo di vedere l’ultimo rimasto di quei sacchi di escrementi, sanguinante dal polso, dall’addome e dal petto, accasciarsi e seguitare a sparare poggiandosi la pistola sulla gamba. Era già morto, ma continuava a combattere. Notevole. Lo ammirai. Niente a che vedere con quei codardi che se l’erano data a gambe al primo botto. Un’altra pasta. Il fotografo, con una carabina Henry in mano, uscì dal suo studio e lo disarmò. Ma disarmò un cadavere.
Tossii ancora, e ancora sputai sangue, macchiando la polvere di fronte a me.
Gli spari erano terminati. L’acre odore pirico pungeva le nari e arrochiva la gola.
Non riuscivo a fermare i miei spasmi polmonari.          
Il mio amico tornò a guardarmi. L’ombra della tesa gli celava ancora gli occhi, ma le sue pupille, lo sentivo, erano fisse nelle mie. Gli sorrisi.
“Sei ferito?” la voce era bassa e rassicurante.
“No.” Mi lisciai il soprabito, continuando a tossire. “Tutto a posto.”
“Dovresti farti vedere, Doc.”
“Mi vedo da me, Wyatt.”
Accennò anch’egli un lieve sorriso, rassegnato ma gentile.
Ci guardammo intorno. Il fumo si stava posando sui corpi, sulla terra, sul sangue. L’uragano che avevamo scatenato era passato. Era durato sì e no mezzo minuto. Il vento smise di trattenere il fiato, e ricominciò a spirare, a lente folate quasi rassicuranti, come sospiri di sollievo, sulle nostre teste e sulle nostre anime, sullo studio fotografico di Fly, su Fremont Street, e sulle staccionate dell’OK Corral.


Cesare Bartoccioni
18 giugno 2018

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